Cultura e società

Visita alla fondazione Prada, Milano

Dopo il periodo di distanziamento sociale e divieti, siamo finalmente riusciti a prenotare i biglietti per visitare la collezione d’arte della Fondazione Prada di Milano. La sede di Milano vanta uno spazio espositivo di 19.000 mq interamente dedicato al dialogo tra l’arte e la cultura contemporanea.
Un complesso strutturale diretto dall’architetto Rem Koolhaas che decide di trasformare un’ex distilleria dei primi anni del Novecento unendo edifici preesistenti e nuovi, denominati “Podium”, “Cinema” e “Torre”. La nuova sede è contraddistinta dalla “Haunted House”, un edificio che irrompe nel mezzo del complesso sviluppandosi su 4 piani, rivestito in lamina d’oro 24 carati che accoglie la collezione permanente dell’arte della Fondazione.

La nostra visita alla Fondazione parte dal Podium, zona centrale dell’edificio, con la mostra Delivering Useless Bodies? del duo artistico Elmgreen & Dragset.
Esposizione che si estende su quattro spazi e il cortile della galleria. Concepita come un’indagine sulla condizione odierna del corpo nell’era post-industriale in cui la presenza fisica umana sembra perdere la sua centralità divenendo talvolta superflua.
Cambiamento che influisce su ogni aspetto della vita, dalle relazioni interpersonali, alla salute, alle condizioni e relazioni negli ambienti di lavoro e al modo in cui conserviamo ricordi e informazioni.

A sinistra: This is How We Play Together, 2021, Bronzo, smalto, Courtesy degli artisti e Perrotin / Christen Sveaas Art Collection
A destra: Filippo Albacini, Achille morente, 1854, Marmo, Accademia Nazionale di San Luca, Roma

La mostra “Corpi Inutili?” esplora con una tecnica iperrealista e di forte impatto emotivo, l’adattamento fisico umano a un mondo sempre più basato su immagini bidimensionali.
Al centro del loro lavoro performativo è presente infatti la percezione del corpo che esplora l’intimità e l’identità nella vita più in generale e le relazioni sociali più nel particolare.
Emgreen & Dragset mettono in scena con sapiente maestria nell’uso dei materiali scultorei, un “io” fisico che non è più protagonista fondamentale della nostra esistenza, ma un ostacolo dell’esistenza stessa.
Attraverso un parallelismo visivo tra sculture marmoree dell’Ottocento e del Novecento, mettono in evidenza il ruolo del corpo fisico in due epoche differenti.
Mentre il corpo del XIX secolo era concepito come produttore di beni quotidiani, il corpo del XX secolo diventa prodotto di consumo i cui dati raccolti sono poi venduti dalle Big Tech.
La loro indagine si focalizza proprio sul come l’acquisizione dei dati dei singoli individui da parte delle più grosse piattaforme tecnologiche mondiali, si stia espandendo e sul come il controllo della tecnologia sulla mente umana stia invadendo ogni aspetto della nostra vita.
Entrando nel pieno dell’esposizione immersiva, restiamo colpiti dalla contrapposizione tra classico e contemporaneo che caratterizza l’allestimento del Podium. La solennità delle gesta delle sculture classiche e neoclassiche come l’Achille morente dello scultore Filippo Albacini del 1854 (Accademia Nazionale di San Luca, Roma), si contrappongono sculture storiche e contemporanee.
Un contrasto che mette in luce somiglianze e differenze nella tecnica esecutiva del corpo umano attraverso l’arte scultorea degli artisti appartenenti a secoli differenti.

Garden of Eden, 2022, MDF, alluminio, stoffa, monitor, tastiere, mouse, sedie da ufficio Courtesy degli artisti, secondo piano del Podium

Il duo artistico in questo modo, crea un dialogo estetico e introspettivo tra antico e contemporaneo, in cui il passato ritorna come momento presente e ricorrente nella vita.
Percorrendo lo spazio arriviamo nel secondo piano del Podium. Qui diventa un grande ufficio abbandonato, area che esalta il cambiamento del ruolo del corpo nel contesto sociale e lavorativo. Un’installazione composta da postazioni d’ufficio, rese infinite dalla riflessione negli specchi circostanti che richiamano strutture geometriche tipiche della scultura minimalista, evocando talvolta alcuni film distopici come Playtime (1967) di Jacques Tati e Brazil (1985) di Terry Gilliam.
Attraversando le aree espositive esterne della Fondazione, osserviamo vere e proprie situazioni che destano in noi straniamento perché composte di oggetti comuni che vengono decontestualizzati, con lo scopo di creare esitazione nello spettatore.
Opere che confondono l’osservazione perché oggetti che a prima vista potrebbero sembrare familiari, rivelano poi qualcos’altro.
Una borsa frigo da picnìc collocata a ridosso della sala Cinema, segnali stradali che si riflettono nell’architettura, diventandone parte senza alcuna funzione, panchine sulla differenza di genere e una postazione bancomat collocata all’esterno della sala Nord.
Situazioni stranianti in cui come affermato dagli artisti, inducono l’osservatore a pensare “chi è passato di qua?”, dando così spazio alla libertà di pensiero in cui ognuno può interpretare l’opera e creare il proprio significato.

Untitled, 2011, Acciaio, legno, figura maschile di silicone, stoffa, Courtesy degli artisti e Perrotin, padiglione Nord

Foto dall’esterno

Seguendo il percorso espositivo dal Podium alla galleria Nord, giungiamo in un padiglione domestico futurista che ha come protagonista il “Concetto Spaziale” di Lucio Fontana del 1963.
Un luogo freddo, dall’aspetto inquietante, che esplora le relazioni umane con gli spazi abitativi dominati da una tecnologia sempre più rigida e invasiva.
Anche qui esploriamo uno spazio straniante e irreale in cui l’immobilità della parete in acciaio e del cadavere in silicone nella cella frigorifera, si contrappone all’unica presenza mobile del cane robot.
Arriviamo nella Cisterna in cui Elmgreen & Dragset analizzano le stereotipie e gli ideali fisici esplorando l’industria del benessere e del tempo libero.
Un settore dalle grandi dimensioni che diventa spogliatoio, palestra ma anche piscina dismessa, in cui il ruolo della tecnologia diventa predominante sull’esistenza. Il corpo sospeso nello spazio centrale What’s Left? rappresenta l’incertezza e quindi il desiderio di ricerca del ruolo del corpo nel mondo, come attore o come strumento nel cambiamento sociale.
Concluso il percorso espositivo di Elmgreen & Dragset, ci dirigiamo verso la Torre della Fondazione i cui 6 piani espositivi, ospitano il progetto ATLAS che riunisce installazioni, dipinti e opere scultoree. Un confronto contrastante tra gli artisti più noti del panorama internazionale delle avanguardie del Novecento, come Carla Accardi, Jeff Koons, Walter De Maria, Pino Pascali, Goshka Macuga e Damien Hirst. Concepita come una mappatura delle idee visionarie degli artisti che dal 1960 al 2015 hanno contribuito allo sviluppo delle

“Tulips” (1995-2004) di Jeff Koons, è un bouquet di grandi fiori colorati in acciaio inossidabile, parte della serie Celebration, iniziata nel 1994

attività artistiche della Fondazione.
Qui infatti si può ammirare l’opera Tulips di Jeff Khoons, le geometrie plastiche di Carla Accardi, le opere di arte povera di Pino Pascali o ancora le opere concettuali e provocatorie dell’artista britannico Damien Hirst.
L’ottavo piano della torre ci ha trattenuto incuriositi e affascinati dalle installazioni di Damien Hirst che, a partire dall’opera “Il cimitero delle mosche” inizialmente letta come tela dipinta, una volta accostati al quadro, abbiamo poi scoperto un vero e proprio cimitero di mosche impresse nella tavola tramite l’uso di una resina.
Opere impressionanti che respingono lo spettatore perché accostatosi all’opera, deve fare i conti con l’orrore e l’ammasso di mosche cadaveri incollate al supporto.
Nelle installazioni dislocate lungo la sala, Hirst attraverso la decomposizione esplora il tentativo che le persone fanno per isolare l’orrore ed eliminarlo, inscenando lo spettacolo della vita. La distruzione e la morte mettono lo spettatore davanti ad una realtà in cui oltre alla vita esiste la morte e non si può far finta che esista solo la vita. Insomma una bella mostra che apre alla riflessione sull’esistenza e sull’accettazione della morte.
Altra area espositiva e persuasiva, è quella che accoglie l’opera contemporanea di Carsten Holler, Synchro System. Opera che apre a diverse possibilità di percepire l’esistenza, indagando sui meccanismi sensoriali e percettivi degli spazi creando stimoli e strumenti

Il progetto Synchro System (2000), ideato da Höller per gli spazi della Fondazione Prada, consiste nella realizzazione di un “villaggio di possibilità” costituito da stimoli psicofisici e da strumenti interattivi.

interattivi per il fruitore. Si tratta in realtà di un’installazione composta da un breve percorso labirintico sensoriale che il fruitore deve percorrere in totale assenza di luce. Il percorso termina in una stanza luminosa in cui la realtà viene ribaltata provocando disorientamento ed effetto allucinatorio, dato dalla presenza di funghi giganteschi ribaltati a testa in giù. La cosa sorprendente è stato vedere come l’intento dell’artista abbia pienamente funzionato sul mio stato psichico. Iniziando il percorso, sin da subito, ha creato in me un forte senso di spaesamento con conseguente sensazione di agitazione. Mi ha quindi costretta ad abbandonare l’installazione.
Ultima tappa della nostra visita è stata l’esposizione dell’artista Thomas Demand nel piano interrato del cinema. Opera dal titolo “Grotto”, Progetto Grottesco, che riproduce attraverso circa 30 tonnellate di cartone grigio, l’ambiente grottesco con le sue cavità, le stalattiti e le stalagmiti di una cartolina dell’isola di Maiorca. L’artista espone tutto il processo di documentazione della grotta come libri, guide, cartoline e pubblicazioni per mostrare tutto il processo che l’ha portato poi alla realizzazione della fotografia.
La particolarità dell’opera dell’artista, è data dall’uso di una nuova tecnologia virtuale che gli permette di tagliare i vari strati di cartone attraverso un modello 3D. Un metodo che gli permette di simulare le stratificazioni della natura contrapponendo l’ispirazione alla realtà al surrealismo stesso dell’opera.

Nel 2006 Thomas Demand per realizzare l’opera fotografica Grotto, ha ricostruito a partire da una cartolina una grotta dell’isola di Maiorca.

Insomma una gita fuori porta degna di nota. Un viaggio culturale che ci ha permesso di osservare come l’arte risponde, attraverso i più disparati linguaggi espressivi, ai mutamenti sociali e culturali di un’epoca in cui la figura umana perde il suo ruolo centrale e come la tecnologia stia influenzando il pensiero e la vita di tutti.

Fruibilità degli spazi

Conclusasi la nostra visita nell’interrato del cinema, la restante area da visitare, era la permanente nella “Haunted House”, che però non siamo riusciti a vedere a causa problemi di organizzazione. Arrivati alle 15 del pomeriggio, l’addetta all’ingresso della permanente, ci chiede il ticket con la fascia oraria d’accesso. Purtroppo non avevamo una risposta, all’ingresso nessuno ci aveva informati del fatto che era necessario prendere il biglietto per un orario ben preciso per l’accesso alla permanente. Per visitare la mostra dovevamo quindi aspettare le 18:30, cioè ben tre ore e mezzo dalla nostra richiesta, tempo impensabile per chi come noi scopre alla fine del tour la necessità della prenotazione. Insomma gestione degli orari e tempi di accesso alle mostre discutibili.
Oltre questo, abbiamo dovuto ancora una volta fare i conti con gli ostacoli che una persona con delle difficoltà deve affrontare ogni qualvolta si accede a molti spazi espositivi.
Sì, perché anche se presenti gli ascensori, agibili solo su richiesta per l’accesso ai piani alti o agli interrati, ci si ritrova a dover chiedere al personale la possibilità di usare il mezzo. Situazioni che ampliano il disagio delle difficoltà, in cui una minoranza viene esclusa a priori, pagando la colpa di appartenere a una categoria più fragile, fatta di pochi numeri. Accesso ai mezzi elevatori che diventa ulteriormente impegnativo quando si è anche costretti ad aspettare in quanto la richiesta viene gestita come “eventuale”.
A tal proposito, a partire dalle istituzioni a finire alle amministrazioni, passando per gli addetti al controllo e alla gestione degli eventi culturali in generale, credo che avremmo bisogno di rieducarci alla diversità e all’empatia. La disabilità può manifestarsi in varie forme per cui ci si deve sentire liberi di poter accedere a qualsiasi mezzo di mobilità, senza la necessità di chiedere l’utilizzo di ascensori o pedane che nella gran parte dei casi, sono nascosti e inaccessibili anche agli stessi responsabili.
In questo modo si alimentano gli ostacoli e le restrizioni fisiche e mentali che una persona con delle problematiche deve affrontare già nella vita di tutti i giorni. La rieducazione deve partire dal comprendere che la diversità non porta necessariamente i segni che etichettano ed escludono talvolta quella categoria. Si parla molto di eventi per tutti e inclusione sociale, ma poi quando ci si confronta con la realtà, i pochi sono destinati all’esclusione, perché una richiesta apparentemente non motivata fa stupore in molti addetti nei musei che scrutano insistentemente increduli.
Insomma ad oggi il diverso dalla massa deve continuare a fare i conti con situazioni discriminanti e quindi anche costretto a spiegare i motivi per giustificarne le necessità.

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Autrice
Sonia Tralli è un’artista visiva italiana nata a Matera nel 1988. La sua espressione artistica, ha inizio sin da piccola formandosi poi presso il liceo artistico e più tardi conseguendo gli studi accademici in Decorazione e Illustrazione per l’editoria presso le Accademie di Bari e di Bologna.