Cultura e società

Abilismo, tra pregiudizi e discriminazione

Relativamente a diversi ambiti, dalle religioni, all’orientamento sessuale o all’etnia, oggigiorno vengono spesso affrontati discorsi relativi all’inclusione. Quando trattiamo l’inclusione sociale, si fa riferimento a quelle differenze a causa delle quali un individuo o gruppi di individui vengono esclusi dalla società. I motivi dell’esclusione possono essere molteplici. Nei casi più comuni la discriminazione avviene per il semplice fatto che i soggetti che la subiscono, non rispettano le caratteristiche della maggioranza degli individui che compongono una determinata società, questa maggioranza è fedele a determinate peculiarità che definiscono uno standard che esclude automaticamente chi non le rappresenta. Può trattarsi di un atteggiamento volontario e consapevole ma anche di una condotta inconscia.

L’abilismo è la definizione della discriminazione subita da persone portatrici di disabilità. L’abilismo è una discriminazione come lo è il razzismo, il sessismo o l’intolleranza religiosa.

L’abilismo è tra le discriminazioni di cui si discute meno, di cui la gente comune è meno a conoscenza e spesso, condizione che vale per tantissimi, si è abilisti senza rendersi conto di esserlo.

Abilismo e cultura popolare

Il termine abilismo è nato tra gli anni sessanta e i settanta, nonostante abbia una storia di oltre cinquant’anni, resta ancora l’argomento di inclusione meno affrontato rispetto a tutti gli altri. Questo termine fa riferimento a tutto ciò che crea discriminazione nei confronti di persone portatrici di disabilità, dove tutto è ideato per essere usufruito solo da individui che rispecchiano lo standard di “normalità”, generando quindi una discriminazione. Ancora oggi nella nostra cultura sono radicati dei comportamenti che riteniamo ordinari ma che nascondono un abilismo intrinseco e profondo, riscontrabili in atteggiamenti o modi di dire che riflettono una mancanza di valutazione della realtà intorno a noi. Si tratta di un meccanismo che genera una sorta di discriminazione sistemica, spesso anche involontaria, che va a creare un sentimento di frustrazione ed autocompassione in chi lo subisce, giustificando la non possibilità di poter fare qualcosa che invece potrebbe essere un diritto sacrosanto, finendo per far accettare la discriminazione come regolare. È possibile identificare alcuni comportamenti diffusi tra il volontario e l’involontario che sono strettamente legati all’abilismo culturale:

 

    • Parcheggi per disabili o rampe d’accesso occupati abusivamente. “Cinque minuti devo solo ritirare i soldi dallo sportello…” o altre mille scuse come questa le abbiamo sentite mille volte da parte di chi ha abusivamente impegnato un posto per disabili. È un atteggiamento discriminatorio perché una persona con disabilità non potrebbe fare il giro dell’isolato per cercare un altro posto, incorrerebbe nell’impossibilità di perseguire il suo obiettivo.

 

    • Usare le disabilità come offese. Potreste pensare che il vostro conoscente che non è propriamente un atleta o il primo della classe non abbia nulla a che vedere con certe situazioni, ma la realtà è che non sai mai con chi stai parlando, un “104”, “storpio” o “ritardato” in più, potrebbero fare molto male alla persona che hai di fronte.

 

    • Supereroismo e pietismo. Acclamare una persona con disabilità che tenta di vivere la sua vita nell’ordinario che appartiene a tutti gli esseri umani, come se fosse una sorta di “persona speciale” o “mamma coraggio” non è una buona idea. Data la condizione di svantaggio naturale ma soprattutto culturale, in molti sono impegnati in battaglie per i propri diritti, è facile imbattersi in una bacheca social tappezzata di complimenti eccessivi e incoraggiamenti palesemente banali.

 

Fa parte dello spettro dei comportamenti abilisti giudicare la persona per la sua disabilità piuttosto che per le sue caratteristiche di persona. È piuttosto frequente la scelta di un normodotato a confronto di un disabile in quanto le performance vengono reputate inferiori a prescindere.
    • Giudicare la persona in base alla sua disabilità e non in base alle sue caratteristiche di persona. Purtroppo ancora oggi si crede che le persone che appartengono alle categorie protette non siano in grado di svolgere un lavoro in maniera corretta come un individuo normodotato. Convinzione che si affianca a quella in cui questi posti di lavoro vengano coperti solo per un obbligo statale più che per la possibilità che anche un soggetto che vi appartenga, sia effettivamente abile tanto e non quanto un soggetto ordinario.

 

    • Usare parole e definizioni desuete e abiliste. Questo punto fa parte di un fattore perlopiù culturale, una discriminazione sottile che viene dall’abitudine e dal passato che hanno coniato alcuni termini che si sono stabiliti con radici profonde nel nostro vocabolario, dando una definizione errata e fuorviante a se stessi e agli altri dei portatori di disabilità. Per fare alcuni esempi “sordomuto”, “handicappato”, “invalido” o disabile usato come sostantivo fanno parte di questa grande famiglia di termini.

 

  Questa è una macro-lista delle categorie più diffuse, prendendo in esame quelli che sono i comportamenti delle persone comuni in presenza riconosciuta o meno di portatori di disabilità. Vi sono molti altri fenomeni che sono discriminazione di tipo abilista come il perpetuare, anche laddove non profondamente necessario, la presenza di barriere architettoniche sia che si tratti dell’Amministrazione Pubblica ad attuarla che un privato cittadino. Perchè purtroppo, se non ne sei al corrente, anche l’Amministrazione Pubblica nei progetti di opere pubbliche in cui non è necessaria la presenza di barriere architettoniche o sensoriali, applica del puro abilismo per negligenza e mancanza di buon senso e buona fede.

La mia libertà finisce dove comincia la vostra. Martin Luther King Jr., attivista, politico e pastore protestante statunitense

Il fatto

Cerchiamo di ragionare e spiegare al meglio i precedenti punti meno lampanti sotto il profilo pratico. Il pietismo mascherato da superorismo, è insito in quei racconti dal sapore agrodolce dal retrogusto molto amaro, che invece di rendere il portatore di disabilità una persona comune che fa il suo, lo martirizza come un poveretto sotto la media che talvolta, attraverso lacrime e sangue, riesce anche lui a intravedere un barlume di risultato apparentemente significativo, se non fosse che quella gioia è offuscata dalla sua condizione permanente che merita complimenti a prescindere per aver tentato di far qualcosa della sua vita. Questo è ciò che l’attivista Stella Young ha battezzato “Inspiration porn“.

Arianna è una ragazza laureata in economia e commercio, portatrice di disabilità. Ogni mattina va a lavorare e torna a casa nel pomeriggio dopo aver fatto la spesa, cucina, legge un buon libro e va a dormire. No, non sta cercando di ispirarti e non ha alcun tipo di super potere.

Questo tipo di narrativa non apporta sicuramente dignità di parità alla categoria, è come il tentativo di una donna in tacco 14, calze a rete e vestitino corto, di sgraffignare al suo accompagnatore in Porsche una cena al ristorante stellato, per poi parlare di parità di genere. Ed è sempre per questa cultura che un datore di lavoro non assumerebbe un individuo con disabilità senza che ne abbia uno sgravo e un obbligo statale, perché a prescindere la performance viene reputata inferiore, anche dove questo problema non sussiste. La mia esperienza personale in diversi ambienti lavorativi, mi ha dimostrato che la percezione del lavoratore appartenente alle categorie protette è di incapacità, sfiducia o di essere li a riempire un buco obbligato dallo stato, talmente generalizzata da non appartenere solo ai datori di lavoro ma anche ai colleghi che in alcuni casi, possono addirittura arrivare ad ipotizzare un’appartenenza alle categorie protette per i colleghi che hanno performances inferiori, quel tipo di colleghi che, come spiegato nella lista precedente, non si risparmierebbero appellativi come “decerebrato”, “menomato” o “handicappato” per indicare qualcuno che non rispecchia lo standard ordinario, senza sapere che in realtà il destinatario dei loro commenti potrebbe essere il loro diretto interlocutore. Non è poco comune fare questo tipo di gaffe, ed accade proprio per la non comprensione di queste dinamiche. Chi mette in pratica questo tipo di abilismo, probabilmente non sarebbe in grado di distinguere un portatore di disabilità se non in presenza di una disabilità evidente.

Non sapevo di essere abilista

Una gran parte di questi atteggiamenti del mondo abilista appartengono, come abbiamo precedentemente accennato, a questioni culturali estremamente radicate, rendendo di fatto l’abilismo una discriminazione involontaria legata a doppio filo con l’ignoranza. Nei giorni scorsi è stata trasmessa la 73esima edizione del Festival di Sanremo e durante il corso della terza serata, è stato riservato uno spazio al cast di una nuova serie molto seguita, “O Mar’ For” (Mare fuori). Durante la presentazione e l’intervista al cast, Amadeus ha annunciato Carolina Crescentini che ha raccontato: «Sono orgogliosa di interpretare Paola Vinci, una donna disabile», ma cosa centra questo con l’abilismo?

Potrebbe sembrare una polemica sterile, fine a se stessa. Non si tratta del caso isolato, un normodotato può interpretare un disabile, come può essere capitato in altri capolavori in cui una persona di bassa statura e apparentemente molto giovane abbia interpretato un bambino. Tuttavia nel caso dell’interpretazione di personaggi con disabilità non si tratta di un’eccezione ma della regola.

Nello specifico, non è questa vicenda isolata a dar vita a una discriminazione, ma una determinata cultura che traspare da fatti come questo, in cui anche in ambienti che non partono dal basso come lo spettacolo, generano meccanismi naturali in cui l’interpretazione di un personaggio disabile non richiede la necessità di un casting di una persona disabile, un po’ come se per interpretare un personaggio che sia da copione afroamericano, venisse scelto un caucasico tinto di nero. Situazioni Kafkiane, diventano regolari e accettate anche da chi le subisce perché diventa impossibile per una minoranza debole, far acquisire un punto di vista che non si è nemmeno valutato. L’assurdità di una cultura abilista così radicata, si esacerba in situazioni in cui persone estranee non parlano con il loro diretto interlocutore in sedia a rotelle ma solo con il suo accompagnatore, e tra l’altro come se il diretto interessato non fosse presente. Non c’è in maniera chiara la voglia di offendere o di ghettizzare nessuno, si tratta solamente di un costrutto culturale, involontario e discriminatorio. Organizzando una festa a casa con i compagni di scuola di tuo figlio, potresti avere l’idea che chiedere di togliere le scarpe in casa per evitare che i bambini si struscino per terra laddove sono già passati con le scarpe sia una buona idea, ma purtroppo potrebbe essere abilismo nei confronti di quel bambino che utilizza dei plantari o delle scarpe per restare in equilibrio, e magari senza la sua mamma può avere vergogna o incapacità di comunicare il suo disagio. Tutto questo può essere cambiato, con l’informazione, la comunicazione e l’educazione, per rendere le persone di domani maggiormente capaci di rispettare la propria libertà e quella degli altri.

Mai per gabbo

In alcune zone della mia città di origine, la bellissima città di Lecce, davanti a situazioni in cui si crea una condizione di derisione verso qualcuno che viene discriminato o canzonato per quello che fa o per quello che è, veracemente qualcuno potrebbe esclamare “Mai pe iabbu!“, ovvero “Mai per gabbo“. Il gabbo è l’oggetto di derisione, della beffa, della presa in giro in quanto non ordinario, qualcuno di cui beffarsi. Questo modo di dire descrive un fenomeno sociale che viene da lontano, sarebbe opportuno non prendersi gioco di qualcuno in una condizione meno fortunata, come recita appunto la continuazione di questo modo di dire “de lu iabbu nun ci mueri, ma nci ccappi“, da parte del gabbo, ovvero la persona che hai deciso di deridere, probabilmente non avrai mai un danno, ma un giorno potresti essere al suo posto. Non avere oggi un problema di tipo fisico o sensoriale, non significa non averlo domani. Non mi fraintendere, non lo sto augurando a nessuno, si tratta solo di oggettività e tutti dovremmo imparare a conoscere la condizione dell’altro e a non discriminarla, perché domani potremmo essere al suo posto.

Avatar photo
Daniele Contino è un sistemista reti e servizi informatici con esperienza ventennale nell'assistenza tecnica informatica. Ha lavorato sia in ambiti corporate multinazionali che come imprenditore, ricoprendo ruoli che spaziano dall'informatica, all'amministrazione, alla vendita e al commerciale. È autore, webmaster e fondatore di Superchio.it nato dalla passione per la lettura, soprattutto di saggi, e la scrittura, ma anche per la condivisione delle proprie passioni con gli altri. Missione principale del magazine è infatti quella di condividere le proprie conoscenze e tentare di divulgare le proprie competenze.