Dal 29 aprile fino al 12 giugno di quest’anno, a Reggio Emilia, è possibile visitare la XVII edizione del festival di Fotografia Europea. Questo evento, voluto dall’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia e dalla Fondazione Palazzo Magnani, è diventato a livello internazionale uno degli appuntamenti più importanti del settore.
Il titolo di quest’anno è “Un’invincibile estate“, da una celebre frase di Albert Camus.
É stato scelto questo titolo per mettere in risalto la voglia di ritornare ad una vita normale dopo gli avvenimenti recenti che hanno caratterizzato un’esistenza difficile fatta di privazioni e limitazioni.
La direzione del festival composta da Tim Clark e Walter Guadagnini, ha selezionato gli artisti esposti proprio in virtù di questo tema.

Gli artisti, sia nazionali che internazionali, appartengono a diverse sfaccettature sorprendenti, in grado di colpire occhio e sensibilità sotto diversi punti di vista.
Mappa ed esposizioni
Le mostre sono distribuite all’interno della città in 9 edifici differenti. Alcune sono accessibili senza biglietto, per altre è necessario esporre il ticket acquistato.
Chiostri di San Pietro
Come ogni anno, le principali strutture ad accogliere il maggior numero di mostre sono le sale dei Chiostri di San Pietro, dove è possibile visitare ben 10 esposizioni.
Al primo piano è possibile visitare le mostre Binidittu di Nicola Lo Calzo, Hoda Afshar con Speak The Wind, Carmen Winant e le diapositive su Fire On World, Seiichi Furuya con la mostra First trip to Bologna 1978 /Last trip to Venice 1985, Ken Grant con Benny Profane, Guanyu Xu con le fotografie di Temporarily CensoredHome, Chloé Jafé con I give you my life,Jonas Bendiksen con la sua esperienza fotogiornalistica The Book of Veles, per finire con il francese Alexis Cordesse con Talashi.
Nelle sale affrescate del piano terra è esposta la mostra storica di Mary Ellen Mark, The Lives of Women.

Palazzo da Mosto
A Palazzo da Mosto, in via Mari numero 7, è disponibile l’esposizione di Jitka Hanzlová dopo 17 anni di assenza da Fotografia Europea. Avrebbe dovuto essere allestita anche la mostra collettiva Sentieri nel Ghiaccio, una collaborazione istituzionale con il Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo. A causa dell’invasione russa in Ucraina le istituzioni italiane hanno sospeso le collaborazioni con quelle russe, annullando di conseguenza la mostra curata dal responsabile del dipartimento di arte contemporanea, Dimitri Ozerkov. L’esposizione prevedeva la presenza di opere di artisti di nazionalità diverse, tra cui i russi Alexander Gronsky, Olya Ivanova, Dimitry Sirotkin e i fratelli Henkin. Oltre a questi artisti di origine russa avrebbero contributo anche il tedesco Anselm Kiefer, la belga Anais Chabeur e lo statunitense John Pepper.
Viene esposta solo una foto fatta pervenire da Alexander Gronsky come testimonianza della sua opposizione al Governo Russo per l’invasione dell’Ucraina. La foto è stata scattata in un blindato della polizia, dopo l’arresto del fotografo.
Galleria Santa Maria
In pieno centro storico sono esposte le mostre Isola di Simona Ghizzoni, la spagnola Gloria Oyarzabal con Usus Fructus Abusus, e il parigino Maxime Riché con Paradise.
Qui è necessario mostrare il ticket.
Sala Verdi, Teatro Ariosto
Si accede anche qui solo con biglietto. Non è esposta una galleria fotografica, ma un’opera di narrazione di suoni e immagini che è proiettata in una sala al chiuso. Le proiezioni sono realizzate da Arianna Arcara, con un nuovo progetto dal titolo La Visita / Triptych.
Palazzo dei Musei
Al Palazzo dei Musei, dove in altri momenti, con maggior tempo, si possono visitare gli stupendi Musei Civici di Reggio Emilia, dopo trent’anni dalla scomparsa di Luigi Ghirri, è ospitata la mostra In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in miniatura e nuove prospettive.
Una mostra curata da Ilaria Campioli, Joan Fontcuberta e Matteo Guidi.
Fuori dal Palazzo, in Via Secchi, da non trascurare anche la mostra Herbarium di Alessandra Calò.

Chiostri di San Domenico
In questo ambiente si tiene la nona edizione di Giovane fotografia Italiana, un progetto del Comune di Reggio Emilia.
I giovani esposti in questa sezione dell’evento sono tutti talenti sotto i 35 anni, la mostra s’intitola Possibile ed è curata da Ilaria Campioli e Daniele De Luigi. Gli artisti sono Giulia Parlato, Riccardo Svelto, Chiara Ernandes, Claudia Fuggetti, Giulia Vanelli Marcello Coslovi, Caterina Morigi. Ingresso libero.
Spazio Gerra
Lo Spazio Marco Gerra si trova in Piazza XXV Aprile, 2. Questo spazio è dedicato a In Her Room di Maria Clara Macrì. L’ingresso è libero.
Biblioteca Panizzi
Alla Biblioteca Panizzi, altro spazio in cui è l’ingresso è libero si trova Vasco Ascolini: un’autobiografia per immagini.
Collezione Maramotti
Il punto numero 09 nella mappa, un po’ più in fuori rispetto al centro della città, è la Collezione Maramotti.
Ospita la mostra sul fotografo Carlo Valsecchi con 44 fotografie di grande formato che costituiscono Bellum.
Il nostro tour
Purtroppo non siamo riusciti a vedere tutte le esposizioni, un po’ per il ritardo che abbiamo avuto in strada, un po’ per lo spazio che c’è da percorrere e un po’ perché è mia abitudine completare la lettura di ogni descrizione o aspettare che si esaurisca la coda per poter leggere tutto. Per cui anticipo che alcune esposizioni non verranno descritte in maniera approfondita.
La nostra visita è iniziata dal punto 05, ovvero Palazzo dei Musei.
In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in miniatura e nuove prospettive. Una delle esposizioni che più ha colpito la mia attenzione. La sezione fotografia del Palazzo dei Musei di Reggio Emilia ha deciso di ricordare Luigi Ghirri a trent’anni dalla sua morte, con un’esposizione di tutti gli scatti effettuati dal fotografo nel parco tematico Italia in Miniatura.
Viene approfondita la genesi del parco, che fu per Ghirri, una sorta di luogo della prova del nove per poter verificare a livello teorico le tematiche su cui era concentrato. Visitò diverse volte l’Italia in Miniatura. Il suo interesse ricadeva spesso sull’elemento naturale, villaggi alpini, cascate, montagne che per lui rappresentavano una sfida all’autenticità.
Camminando riconosciamo gli stili, evochiamo i viaggi compiuti realmente, riandiamo al reale e al suo doppio e non viceversa
Luigi Ghirri, fotografo

In quegli anni Ghirri è al lavoro per approfondire le variazioni di scala e le riduzioni. Il parco gli offre l’occasione di trattare al meglio l’argomento. Il suo obiettivo è quello di replicare l’esperienza reale e verificare lo scarto tra la replica e la realtà.
Nella mostra è esposto anche il materiale per la realizzazione delle miniature di Ivo Rambaldi, fondatore del parco. L’archivio di quest’ultimo rende più evidente ciò su cui lavorava Ghirri.
Il processo di miniaturizzazione di Rambaldi è complementare al lavoro di Ghirri. Questa fantastica mostra è il punto d’incontro tra i due.
Ho letto con piacere è facilità tutte le descrizioni. Più che una mostra sui lavori di Ghirri sembra un’allegoria di parallelismi tra le realizzazioni di Ivo Rambaldi e Luigi Ghirri che nonostante lavorassero a qualcosa di molto simile e vissero li stessi luoghi, negli stessi periodi, probabilmente non si incontrarono mai.
L’Italia in Miniatura nasce nel 1970 dopo che Ivo Rambaldi visita Swissiminiatur, un piccolo parco tematico che rappresenta i monumenti più importanti della Svizzera in miniatura.
Nonostante Ivo avesse solo la quinta elementare, era un uomo che amava viaggiare e leggere. Questa sua fame di conoscenza lo portò a documentarsi sul recupero e la produzione del materiale e dei metodi per la realizzazione delle miniature.
Dagli anni ’60 Ivo Rambaldi effettua diversi viaggi lungo la penisola, percorrendo più di 30.000 km per raccogliere il materiale necessario per la creazione delle miniature. In quegli anni era molto difficile reperire delle immagini di un monumento o di un edificio per osservarne i particolari, era quindi necessario recarsi in loco. Nei suoi viaggi per il recupero del materiale è sempre accompagnato da un geometra, le misurazioni avvengono con un metro o quando non è sufficiente con conteggio di passi o paragone fotografico alla figura umana. Nessun dettaglio veniva trascurato e venivano riprodotte anche crepe e segni del tempo. L’archivio di Rambaldi è composto da circa 6500 foto che hanno l’aspetto di istantanee scattate senza troppi fondamentali fotografici ma con grande inventiva al fine della riproduzione.

Dopo due anni di lavoro e 400 milioni di lire di investimento iniziale, il parco viene aperto con 50 miniature, ma appare ancora piuttosto spoglio, senza i mari e senza un filo d’erba. Nel mese di agosto si registrano 50.000 presenze, grazie anche ad un settimanale piuttosto noto ai tempi, Epoca. Il parco esploderà solo dopo il 1978 quando Raffaella Carrà sceglierà il posto come location per il suo video Tanti auguri. Successivamente a questo evento molti personaggi famosi visitarono il parco, Lorella Cuccarini ne inaugurò la monorotaia nel 1987. Ivo Rambaldi muore nel 1993 lasciando in gestione il parco ai figli.
Luigi Ghirri e Ivo Rambaldi condussero nello stesso periodo e negli stessi luoghi, ricerche molto simili. Ghirri lavora al suo primo libro Kodachrome, un libro in cui sottopone la funzione delle immagini nella valutazione degli argomenti di finzione e realtà. Ghirri ha un approccio più concettuale, mette in discussione il rapporto con la realtà, Rambaldi è più pratico, più materiale, la fotografia che tra i due è un punto di incontro, per lui è solo un mezzo.
Luigi Ghirri è un investigatore della linea sottile tra la concretezza e l’artefatto, sostiene che il visitatore del parco che passeggia tra le miniature vive come uno “straniamento totale” e con alcuni dei suoi scatti ci dimostra quanto sia difficile distinguere il vero dal falso.
É proprio in questo spazio di totale finzione che forse si cela il vero
Luigi Ghirri, fotografo
Oltre ai temi portati da Ghirri sulla realtà e la finzione, vengono trattati anche altri temi inerenti rispettivamente ai dettagli che compongono l’Italia in Miniatura. A portare uno sguardo sulla paleontologia peninsulare ci pensa Ginevra Scipioni che porta l’attenzione sulle false rocce situate in alcuni punti del parco, per camuffare l’illuminazione delle miniature.
Paleontologia peninsulare è proprio un testo enciclopedico di analisi di questi sedimenti. Un elemento per riportare l’attenzione su quello scambio equivalente che avviene tra ciò che è natura e ciò che è cultura, quindi artefatto.
Quando si pensa alle miniature non si può dimenticare la presenza delle figure umane miniaturizzate. Queste provengono da un progetto di Mattia Gabellini, YouMini, che consisteva nel realizzare una scansione 3D dei visitatori per realizzarne una miniatura in resina.
Queste miniature una volta realizzate venivano prodotte in doppia copia, una veniva posizionata nel parco e l’altra veniva mandata al visitatore.
Sempre per rimanere in tema rispetto a ciò che Ghirri voleva portare come argomento di riflessione, Filippo Marani porta Macchie di provenienza, un progetto fotografico basato sulle figure geometriche incastonate nel cemento e nella pietra. Sorvolando il parco con un drone e fotografando gli edifici miniaturizzati dall’alto, offre un confronto con quelle che sono le immagini fornite da Google Maps per creare un paragone di toni ed effetti.
Usciamo quindi dal Palazzo dei Musei e ci dirigiamo in una via adiacente, via Secchi, dove indicato nella mappa sempre come tappa numero 05 visitiamo l’Herbarium.

Herbarium di Alessandra Calò è una mostra piuttosto contenuta ma da non sottovalutare. Entriamo in un grande portone che da sull’interno dei palazzi storici dove c’è l’installazione DOMUS~motus, un esagono realizzato in materiale di riciclo, pali di legno e rete metallica oltre che cortecce, ortensie, radici e miscanthus gracillimus (delle erbe perenni).
Un locale con la porta aperta da all’interno di Herbarium. Le foto di Alessandra sono caratterizzate da 3 strati ben distinguibili. In fondo il tipo di pianta realizzato in callitipia, una sorta di tecnica di stampa fotografica storica, usata come negativo e piazzata davanti all’illuminazione. Il secondo strato composto dalle mani in stampa fotografica, realizzate su vetro sintetico e il terzo strato dove è presente la scritta in calligrafia. Abbiamo potuto ascoltare la stessa Alessandra spiegare che le note manoscritte provengono dall’erbario di Antonio Cremona Casoli, un ragazzo che affascinato dalla collezione settecentesca del naturalista Filippo Re, realizzò questo erbario.
Un’esposizione che ricorda i valori officinali anche di piante che normalmente potremmo giudicare erbacce, che nonostante vengano considerate da estirpare, sarebbe il caso di documentarsi e conoscerne gli usi e i principi attivi.
Un lavoro di concetto, qualcosa che riporta in primo piano l’abilità della persona con pratiche primordiali della fotografia, piuttosto rudimentale, ma che restituisce il valore della realizzazione più composita e manuale.
Herbarium è la terza tappa di “Incontri! Arte e persone”, l’iniziativa di Reggio Emilia Città senza Barriere dedicata all’incontro tra fragilità e creatività. L’artista Alessandra Calò in collaborazione con Valentina Bertolini, Paolo Borghi, Valentina De Luca, Cinzia Immovilli, Flavia Vezzani e Caterina Perezzani, ed affiancati dallo staff dei Musei Civici e dal progetto STRADE, il nuovo ambito socio-occupazionale a favore delle persone adulte con disabilità.

Di ritorno verso il centro decidiamo di fermarci alla tappa numero 03, Galleria Santa Maria. In questa sede mi hanno colpito particolarmente Isola di Simona Ghizzoni e Paradise di Maxime Riché.
Isola di Simona Ghizzoni. Ci sono alcune rappresentazioni di Simona Ghizzoni che mi hanno ricordato delle nature morte. Le luci sono particolari, in alcuni momenti ho avuto l’impressione di guardare dei dipinti ad olio.
Il progetto di Simona è un racconto relativo a ciò che molti di noi hanno vissuto nel 2020. Il cambiamento improvviso a causa della pandemia.
L’autrice vive un cambiamento radicale perché si trasferisce con la sua famiglia (che è la sua isola) da Roma ad una piccola località dell’Appennino nella vecchia casa dei nonni materni.
I suoi lavori sono legati a vissuti personali, quel reale che esprime attraverso la fotografia. É un’attivista per i diritti delle donne, i suoi progetti sono spesso legati a questioni sociali relativi alla figura della donna e ai suoi diritti o all’autoritratto.
Anche il progetto Isola è la necessità di trasformare in immagini ciò che è stato vissuto. Il vissuto in questo contesto è strettamente legato al rapporto con la natura, alle origini contadine, come si può evincere dalla casa sull’appennino nella piccola località, e con la famiglia in divenire, il figlio, presente in alcuni scatti sia di persona che relativamente agli oggetti di alcune foto.
Una forma fotografica estremamente autobiografica ma non egocentrica, un racconto che attraversa il passato in maniera più velata e il presente in modo più importante.
La vita in montagna non fu facile in quei primi mesi, aggrappati come naufraghi all’isola della nostra famiglia
Simona Ghizzoni, fotografa e attivista
Ci spostiamo quindi nella sala accanto per osservare gli scatti di Maxime Riché, che già da lontano avevo notato per i colori forti e innaturali.
Questi scatti sono impressionanti. I colori scelti sono esattamente l’esacerbazione di quanto è accaduto. Nel 2018, l’8 novembre per la precisione, un enorme incendio conosciuto come

Comp Fire devastò in poche ore la città di Paradise in California uccidendo 89 persone e distruggendo 18.800 edifici. Gli abitanti vennero ridotti in condizioni di precarietà.
É un progetto che vuole mettere in evidenza la nostra vulnerabilità come esseri umani. Riguarda anche noi da molto vicino considerando i frequenti incendi che lambiscono il sud Italia durante i periodi estivi. Esattamente come il sud Italia, Paradise viene continuamente colpita da incendi durante l’anno.
Un vero e proprio documentario. Maxime è tornato a visitare Paradise nel 2020 e nel 2021 per documentare anche il rapporto della popolazione con il territorio. Approfondire come vive tutto questo chi ha deciso di rimanere per cercare di curare un territorio che è stato colpito nel profondo.
Quegli abitanti che innamorati della propria terra non hanno intenzione di allontanarsi seppur che il loro paradiso è diventato un luogo inospitale.
I colori vivi esaltano il giallo, il rosso e il nero, ottenuti da una pellicola a infrarossi che il fotografo ha deciso di utilizzare per dare agli scatti l’emotività delle conversazioni intrattenute con gli abitanti del luogo, per imprimere nelle immagini la fiamma che è impressa anche nei ricordi di chi ha dovuto affrontare Comp Fire.
Queste immagini vogliono raccontare inoltre la dualità della condizione umana. La responsabilità di questi disastri è sempre per la maggiore dell’uomo.Tuttavia dall’altra parte c’è anche il racconto di resilienza da parte di chi decide di non fuggire e di affrontare l’accaduto cercando di ricostruire.
A questo punto lasciamo la Galleria Santa Maria per dirigerci al cuore pulsante della mostra, i Chiostri di San Pietro, tappa 01.

Mostriamo il biglietto e saliamo al primo piano. Ci imbattiamo immediatamente in Binidittu di Nicola Lo Calzo.
Nicola Lo Calzo è un artista, docente e ricercatore all’École National d’Art de Paris-Cergy. La sua fotografia è documentaria, atta ad interrogare la memoria e a custodire la storia. É stato esposto in diversi musei tra cui il Centro Italiano per la Fotografia CAMERA, il Macaal a Marrakech o l’Afriques Capitales a Parigi.
Il progetto di Nicola vuole raccontare la storia dell’eredità di San Bendetto il Moro, relazionando l’identità culturale contemporanea con la storia del colonialismo.
San Bendetto nacque da schiavi subsahariani nei dintorni di Messina agli inizi del ‘500, poi vissuto in Sicilia come frate francescano fino alla sua morte nel 1589. San Benedetto, detto Binidittu, è un simbolo di emancipazione e liberazione conosciuto a livello mondiale, ritenuto tale dai discendenti africani.
Cham è il titolo della ricerca di lungo periodo effettuato da Nicola Lo Calzo alla ricerca dell’eredità del disperso popolo africano e della resistenza alla schiavitù. L’artista ha reso disponibile anche un’installazione video, The Open Boot, un’opera costruita durante questa ricerca sulle immagini in movimento.
Il titolo di quest’opera si rifà allo scrittore Édoaurd Glissant, facendo riferimento all’allegoria della “barca aperta”.
La “barca aperta” come riassunto dell’esperienza di schiavitù e come rinascita a seguito delle liberazione.
The Open Boot è stata realizzata in collaborazione con il regista francese Hugo Rousselin.
Superiamo l’esposizione di Lo Calzo e ci imbattiamo in questa grande foto di Hoda Afshar, che fa partire la collezione Speak The Wind. Con queste immagini, Hoda, fotografa Iraniana, vuole raccontare una cultura locale piuttosto unica presente in Iran, per la precisione sulle isole dello stretto di Hormuz. In questi luoghi si crede che alcuni venti possano essere dannosi, che “esistano”, che possano possedere un individuo inducendo anche problemi di salute fisica e mentale.
Si pensa che i sacerdoti di questo culto che hanno ereditato la possibilità di comunicare con queste forze soprannaturali, attraverso dei riti composti di musica, gesti e incenso possano liberare gli individui posseduti e malati.
Non si hanno fonti certe ma si presume che questi culti siano approdati in Iran dall’Africa sudorientale a causa della loro documentata presenza in Etiopia. Gli scatti raccontano la storia di questi miti e delle credenze relative a questi venti, un modo di immaginare in maniera visibile ciò che visibile non è.

In un corridoio piuttosto lungo dei Chiostri di San Pietro, in una stanza buia al di là di una tenda ci sono 4 proiettori per diapositive che continuamente vengono proiettate sul muro, per ore e ore. L’idea è di Carmen Winant con Fire On The World, che non ha scattato alcuna di queste immagini. Carmen ha comprato, trovato e/o restaurato queste immagini, le immagini non si sviluppano con un arco narrativo specifico.
Prese nel loro complesso le diapositive richiamano sempre scene di disordini sociali e protesta, come le proteste per il diritto all’aborto o le rivolte di Watts.
La speranza è quella di un nuovo inizio, per creare tempi migliori e come dice il titolo stesso, l’unico modo per ricominciare è dare tutto alle fiamme.
Usciti dalla buia stanza delle diapositive di Carmen Winant, all’inizio del corridoio successivo è esposto il Giapponese Seiichi Furuya con First trip to Bologna 1978, Last Trip to Venice 1985. Una delle esposizioni più particolari, più trasmissive anche se in un contesto molto angosciante.
Seiichi mette insieme le foto fatte a sua moglie Christine negli ultimi due viaggi fatti insieme. Christine si suicida nel 1985 a causa di problemi di depressione e instabilità mentale. La sua esposizione è ancora una volta un tentativo di scorgere quegli indizi che avrebbero potuto raccontargli in precedenza un fine tanto orribile.
Anche qui viene evidenziata la dualità della felicità dei momenti passati insieme, con la crudeltà e la tristezza di quella che a volte può essere la vita.

É il momento di parlare di Benny Profane di Ken Grant.
Benny Profane è un richiamo al romanzo V. di Thomas Pynchon. Un racconto in cui attraverso uno stratagemma, quello della ricerca di V., i due protagonisti si alternano in situazioni episodiche, in alcune l’ex marinaio Benny Profane, nell’altro Herbert Stencil, alla fine della narrazione vengono integrati in un quadro complessivo.
In questo racconto Benny Profane è un personaggio svogliato, volubile, che cambia continuamente lavoro e donne. Congedato dalla marina Benny lavora come operaio per le strade, su e giù per la east coast. Insomma un personaggio che vive in un limbo.
Grant vuole richiamare proprio questo limbo, questo essere indefiniti e precari, per intenderci è il riferimento a cui vuole aggrapparsi nel

raccontare con le immagini questi posti e i suoi protagonisti. Le persone che imprime sulla pellicola sono le classi operaie inglesi.
Il luogo del racconto è un distretto portuale di Liverpool dove lavorò da giovane come operaio, un luogo a cui è molto legato.
Adiacente al fiume Mersey, nell’entroterra, in particolare nella vasta distesa paludosa del Bidston Moss.
Nel periodo compreso tra il 1989 e il 1997 l’artista diventa un tutt’uno con queste classi operaie, composte da persone in cerca di sopravvivenza e stabilità, in un periodo storico che non ha nulla di stabile.
Il racconto attraverso le immagini è il resoconto di un’area di Liverpool e di coloro che l’hanno modellata durante i suoi ultimi anni di attività.
Dal 1997 l’area di smaltimento rifiuti di Bidston Moss fu cessata e il sito è diventato una riserva naturale.
Facciamo un salto avanti e portiamoci allo spazio dedicato a Chloé Jafè che partecipa con il suo progetto I give you my life, quest’anno un suo scatto diventa anche copertina dell’evento Fotografia Europea XVII.
Chloé nel 2013 si tasferisce a Tokyo con il desiderio di conoscere donne appartenenti alla Yakuza. La Yakuza è la mafia giapponese, una delle più famose e leggendarie al mondo, è molto difficile se non praticamente impossibile riuscire a entrarci in contatto e addirittura riuscirvi a penetrare all’interno.
Chloé Jafè nasce a Lione nel 1984, proprio essendo culturalmente così lontana, trascorre un anno a perfezionare il suo giapponese e a fare suoi quei valori culturali necessari per poter fronteggiare quel mondo.
In questo periodo di tempo lavora in un bar e scandagliando tra la clientela e i quartieri a luci rosse, riesce con un incontro fortunato ad avere un’opportunità per raggiungere il suo scopo.
Riesce quindi ad avvicinarsi a questi intangibili clan attraverso l’introduzione da parte di un boss, riuscendo così a partecipare alle loro riunioni e ai loro rituali.

Chloé riesce ad arrivare anche alle loro mogli, figlie e amanti, le donne della Yakuza.
Sono queste le donne che, nascoste nel segreto, all’ombra dei boss della mafia, dedicano a loro l’intera vita.
Sulla loro pelle è tatuata questa totale dedizione ai loro uomini, qualcosa che le esclude totalmente dalla società. La fotografa si trasferisce in Giappone per creare una trilogia su questo argomento, questa è la prima parte.
Nella parte finale dei Chiostri di San Pietro è esposta la mostra storica.
Mary Ellen Mark con The Lives of Women. Come suggerisce il titolo stesso del progetto, Mary Ellen Mark, dalla sua Laurea in fotogiornalismo con Master presso la Annenberg School for Communication, si dedica all’esplorazione della realtà delle persone, spesso in condizioni di vita difficili. Realizza delle composizioni grafiche eccezionali, estremamente vivide e pregne di emotività. La maggior parte dei suoi soggetti sono donne.
Mary Ellen Mark è avanti sui tempi, è molto attenta e minuziosa nel raccontare i diritti mancati e i pregiudizi sulle donne del suo tempo. Racconta con dovizia di particolari le vite dei soggetti che immortala, con cui entra in confidenza e ne narra i vissuti e le sue impressioni personali.
La mostra curata da Anne Morin, ci racconta la vita di queste donne.
Darà uno spazio solo ad alcune delle storie raccontate da Mary Ellen, uno stralcio di quelle che hanno catturato maggiormente il mio interesse. Purtroppo le foto degli scatti non sono di qualità ottimale a causa delle luci e dei riflessi presenti nella stanza.

La prima tra le tante foto che mi ha colpito è stata quella di Amanda ad Amy, girato l’angolo tra una sala e l’altra mi è saltata immediatamente all’occhio questa figura che mi sembrava tanto essere una bambina, in una piscina gonfiabile, con la sigaretta in mano.
Questa è Amanda di 9 anni e sua cugina Amy, seduta, di 8 anni.
Nel 1990 Mary Ellen Mark viene mandata in North Carolina da Peter Hows per la rivista Life per fotografare una scuola speciale frequentata da bambini con problemi psico-sociali.
La scuola accoglieva circa una ventina di bambini, tutti nella stessa classe e i loro problemi potevano variare da piccole instabilità del comportamento a gravi schizofrenie.
Mery Ellen trova immediatamente molto interessante questa bambina, Amanda, con cui stringe amicizia. Nella sua descrizione la definisce molto intelligente e molto cattiva, ovviamente dalla foto possiamo intuire a cosa si riferisse.
Un giorno decide di seguirla nel tragitto da scuola fino a casa, prendendo lo scuolabus. Una volta scese alla fermata vicino casa di Amanda, la bambina si precipita correndo in una vicina zona boschiva.
La fotografa dopo averla rincorsa per tutto il tragitto la ritrova seduta su una vecchia sedia imbottita, in mezzo al bosco, con una sigaretta.
Amanda aveva il pieno controllo di sua madre, usava il suo trucco e il suo smalto e le dava continuamente ordini, fumava apertamente davanti a sua madre.
In occasione di una visita della cugina Amy di 8 anni, le due bambine giocarono normalmente tutto il giorno, ma ogni 45 minuti, Amanda si prendeva la sua pausa sigaretta e sua madre non poteva dire nulla.
Poco prima di partire Mary Ellen andò a salutarla, la trovò in giardino in questa piscina gonfiabile per bambini insieme alla cugina. Amanda si stava prendendo la sua solita pausa sigaretta.
Sempre per conto di Peter Hows della rivista Life, nel 1987 fu incaricata di fotografare una famiglia di senza tetto.

Anne Fadiman, sua amica e scrittrice, andò in California per trovare una famiglia in condizioni di difficoltà che permettesse il pieno accesso per realizzare un servizio.
Si rese disponibile la famiglia Damm, che viveva al rifugio Valley a Los Angeles, diedero la loro completa disponibilità e il completo accesso.
Mary Ellen arrivò a Los Angeles e la stessa notte si recò al rifugio dove alloggiava la famiglia Damm. Erano le 4 del mattino e dormivano tutti profondamente. Inizia così il suo reportage fotografico.
Lo stesso giorno la famiglia Damm fu cacciata dal rifugio e furono costretti a tornare a vivere in macchina.
I successivi 10 giorni li trascorse seguendo la famiglia ovunque andasse.
I due coniugi Linda e Dean permisero di fotografare ogni momento della loro vita, anche quelli più tristi.
Jesse e Crissy sono i figli di Linda avuti da una precedente relazione e i disagi della vita di strada, oltre che per il comportamento molesto di Dean nei loro confronti, erano visibili sui due bambini.
L’ultimo giorno di permanenza chiede alla famiglia di fermare la macchina vicino ad un binario. Quando Crissy mise la sua mano spontaneamente sul viso di Jesse, la fotografa capì che quello era il momento. Tra le tante foto che riuscì a scattare questa è l’unica che poteva essere un ritratto perfetto.
Ma la storia della famiglia Damm non finisce qui. Nel 1994 Mary Ellen ritorna dalla famiglia per conto di David Friend ancora una volta per il giornale Life.
Al suo ritorno le condizioni di vita della famiglia erano perfino peggiorate rispetto al precedente reportage del 1987.

Linda e Dean avevano avuto altri due figli, Ashley di 6 anni e Summer di 4 anni. La fotografa notò immediatamente quanto Dean fosse migliore con i suoi figli piuttosto che con quelli di Linda.
Aveva sempre avuto un comportamento orribile con Crissy e Jesse, urlava costantemente e a Jesse un giorno aveva rasato totalmente i capelli contro la sua volontà.
La famiglia in quel periodo occupava un ranch abbandonato, fatiscente e deserto a circa tre ore di macchina da Los Angeles. Dean e Linda erano completamente persi nella loro tossicodipendenza da anfetamina e altre droghe e i bambini non erano mai andati a scuola.
Si respirava un’atmosfera di caos e distruzione. Non avevano ne elettricità ne acqua corrente e la casa era sporca e in stato di abbandono, oltre questo la coppia aveva adottato una ventina di cani.
Mery Ellen soggiornò in un motel in fondo alla strada rispetto al ranch occupato dalla coppia. Tutte le mattine molto presto si presentava a casa di Dean e Linda.
Proprio una di queste mattine in cui arrivò mentre tutti dormivano rimase scioccata alla scena che le si presentò davanti e che le fece capire molte cose.
L’espressione sulla faccia di Crissy diceva tutto, non sapendo cosa fare scattò questa fotografia e in seguito chiese a Crissy se Dean stesse abusando di lei sessualmente.
Crissy negò fermamente.
Alcuni mesi dopo Crissy ammise che Dean abusava di lei sessualmente, Linda prese i bambini e lo lasciò.
A Dean non importava niente, quando seppe che la fotografia fu pubblicata, l’unica questione che sollevò fu relativa al fatto che nell’inquadratura erano visibili la sua pipa e l’attrezzatura per la marijuana.
Ho letto con piacere anche il reportage su Ward 81, un reparto di massima sicurezza per donne, il primo approfondimento fotografico di Mary Ellen Mark sull’Oregon State Mental Ospital.
In questo reparto le donne erano ricoverate in quanto rappresentavano un pericolo per se stesse e per gli altri, purtroppo per questioni di lunghezza non approfondirò il tema.
Gli approfondimenti trattati dalla fotografa statunitense, se vi piace il genere, sono da non perdere e da conoscere meglio.
Infine abbiamo visitato la sede della nona edizione di Fotografia Giovane, Possibile, i Chiostri di San Domenico.
Nella prima sala troviamo i lavori di Claudia Fuggetti, HOT ZONE.

Claudia Fuggetti è una fotografa pugliese, nata a Taranto nel 1993. Dopo la laurea in Beni Culturali frequenta il master in Photography and Visual Design presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Successivamente si specializza con lode in Didattica Multimediale all’Accademia di Belle Arti di Brera. I suoi lavori sono esposti in Italia e all’estero.
La sua collezione ci parla di una scoperta recente: la parte del cervello in cui vengono generati i sogni.
Questa zona si trova nella parte superiore alla nuca e prende il nome di “Hot Zone“.
Una documentazione visiva del sogno lucido, un modo di servirsi della fotografia come mezzo per porre lo spettatore in uno stato onirico, tra finzione e realtà. Il lavoro deriva dall’insonnia sofferta dall’artista nel 2019, in ansia per tematiche come l’ambiente e il futuro del pianeta.
Il progetto nasce da una sua visione fusa tra i sogni e la realtà quotidiana, come fosse una differente dimensione spazio-temporale.
Guardando le foto si evince l’alterazione dei colori naturali, colori che non rispecchiano il canone comune, uno specchio sulla sua insonnia da ansia.
Nella sala successiva troviamo Still Birth di Chiara Ernandes. Attraverso le immagini l’artista vuole raccontare una vita che inizia dalla morte.
Chiara nasce morta l’8 agosto del 1989, viene immediatamente intubata e rianimata con massaggio cardiaco, ma il suo corpo cianotico e ipotonico dice altro. La sua esistenza inizia dalla morte. I medici impiegano cinque minuti per rianimarla.
Il progetto è autobiografico, introspettivo, per cercare di scavare maggiormente all’interno di questo evento della propria vita che per la fotografa romana assume un’importanza di rilievo.
Nella sinossi racconta come sia stato un motivo per giustificare le proprie stranezze, i propri limiti e come abbia esasperato le sue diversità. Ma ad un certo punto della sua esistenza ha sentito la necessità di guardarsi dentro, scavare più a fondo e cercare di capire, in quegli istanti in bilico tra la vita e la morte, cosa abbia vissuto.
Chiara Ernandes è una fotografa romana, dopo il Liceo Classico frequenta la Scuola Romana di Fotografia. Si specializza e lavora come fotografa di scena per importanti teatri romani, interessandosi al teatro contemporaneo performativo.

Nella stessa sala, frontalmente, è disponibile l’esposizione di Giulia Parlato intitolata Diachronicles. Giulia Parlato è la vincitrice del premio Luigi Ghirri. Premio a cui hanno partecipato i giovani fotografi esposti ai Chiostri di San Domenico.
Giulia Parlato è un artista che vive tra Londra e Palermo, è nata nel 1993.
Laureata in fotografia al London College of Communication e al Royal College Arts, il suo è un metodo di analisi dell’uso storico delle immagini e dei video, soprattutto in ambiti forensi e scientifici, come prova di ciò che è stato.
L’esposizione di Giulia ha molto a che fare con realtà e finzione. Diachronicles è un contenitore storico immaginario, una raccolta di prove archeologiche fittizie mascherate da autentiche.
É il suo modo di attenersi al reale che si cela all’interno della finzione, in maniera estremamente analoga a quella raccontata da Ghirri nelle sue prospettive.
Qui le prospettive non sono tutto ma l’artista vuole far riflettere sulla natura incerta di ciò che è stato, e sulla semplicità con cui l’interpretazione errata dei ritrovamenti possa modellare la storiografia.
Giulia mette insieme fotografia ed archeologia per obiettivare l’importanza narrativa storica dei musei.
Sempre nella stessa sala, troviamo l’esposizione di Caterina Morigi, Sea Bones.
Caterina Morigi propone un lavoro diverso dal solito. Ha studiato allo IUAV di Venezia e all’Università di Paris-Saint Denis.
Si concentra principalmente sulle declinazioni della materia, portando l’attenzione su aspetti che si celano all’interno della materia stessa, qualcosa non a disposizione dell’occhio generalmente.
Approfondisce l’effetto del tempo su queste forme fornite dalla materia. Nel caso specifico di questa esposizione si tratta di esseri marini, legandosi allo studio dell’utilizzo di ossi di seppia, conchiglie e aculei di ricci di mare per la creazione di protesi atte a ricostruire parti di ossa umane mancanti.
Il progetto vuole portare alla luce le compatibilità e le differenze tra uomo e natura che, nonostante così apparentemente differenti, sono compatibili nella materia.
La sua sinossi prende in esempio le ossa umane che, sono composte da fosfato di calcio mentre il marmo e le conchiglie da carbonato di calcio, qualcosa di molto simile e mutabile. Ci ricorda che i primi organismi vissuti sulla terra erano a base dello stesso materiale, un’idea ed un lavoro profondamente scientifici, un elemento per ricordare che anche l’uomo è parte della natura di questo mondo.
Le immagini sono ottenute con il microscopio e sono intercambiabili tra loro sfruttando un supporto trasparente rivelano la compatibilità sopracitata attraverso la vista, dando l’impressione di una moltitudine di figure differenti.
Il progetto è realizzato in collaborazione con Gabriella Graziani dell’Istituto Ortopedico Rizzoli e il professor Enrico Sassoni dell’Università degli Studi di Bologna.

Infine, nell’ultima sala troviamo le esposizioni di Riccardo Svelto con La cattedrale e Giulia Vanelli The ugly duckling.
Riccardo Svelto nato nel 1989 a Bagno a Ripoli è laureato alla triennale in fotografia alla Libera Accademia di belle Arti di Firenze dove ora svolge l’attività di docente del corso “Sviluppare un progetto fotografico”.
La sua esposizione ai Chiostri di San Domenico riguarda il rapporto tra vista e immagini. L’artista nel 2020 ritrova le angiografie di suo nonno risalenti al 1999 che certificano la perdita della vista all’occhio destro causata da una trombosi.
La perdita della vista da un’occhio crea per forza tanti piccoli problemi e difficoltà che portano sicuramente ad importanti della vita del nonno. Questo ha scosso in maniera consistente Riccardo, portandolo a riflettere sul legame tra i ricordi e la vista delle immagini, senso che spesso e volentieri diamo per scontato.
L’artista riflette sul fatto che i ricordi ci appaiono come istantanee impresse nella memoria che solo il tempo può cancellare. La vista non è solo la mera funzione dell’occhio nel farci vedere cosa ci circonda, ma è anche lo sguardo della nostra mente attraverso i nostri occhi.
Le immagini ci raccontano la sua paura di perdere la vista, i quadri su sfondo nero ci propongono delle figure ombrate e irriconoscibili o immagini in primo piano di figure sfocate. Il concetto è permeante e l’ombra della cecità ha un’impatto forte sullo spettatore. Rende perfettamente l’idea.
The ugly dickling di Giulia Vanelli invece è un progetto che mette su immagine la cosiddetta fallacia dei costi sommersi.
In psicologia la fallacia dei costi sommersi è quando si è in una zona di comfort e si continua incessantemente e perpetrare la stessa attività. Seppur che l’attività che svolgiamo non risulti più proficua continuiamo a investire risorse e tempo perché magari non siamo avvezzi al cambiamento. A volte si sa che siamo ostili ai cambiamenti semplicemente per abitudine.
I cambiamenti generano paura e si scivola in un circolo vizioso che intacca la propria autostima.
La mancanza di autostima è un problema comune nel tempo in cui viviamo. Il lavoro di Giulia si concentra sul percorso di accettazione personale che deriva da questo. La linea sottile che c’è tra la sindrome dell’impostore e le responsabilità della società nei nostri confronti.
Giulia Vanelli è una fotografa lucchese nata in Toscana nel 1996 che nel 2018 passa un periodo di scolarizzazione presso la Stephen F. Austin University in Texas e nel 2019 e si laurea presso la Libera Accademia di Belle Arti di Firenze.
Conclusioni
Purtroppo non è stato possibile vedere l’intera mostra. Nel complesso l’evento è stato davvero eccezionale e ricco di nuove idee e di nuovi artisti da conoscere e da comprendere. La maggior parte delle esposizioni erano in spazi grandi e commisurati, con tante informazioni esposte, scritte in maniera accurata ed esaustiva.
Abbiamo sofferto un po’ la mancanza di indicazioni. All’inizio del tour senza troppe istruzioni sembrava di brancolare un po’ nel buio, ma nulla di così grave.
Lo Spazio Gerra non era attrezzato di ascensore perché era fuori servizio, quindi non utilizzabile. Nella restante metà degli edifici era necessario chiedere ed aspettare un addetto per avere un servizio adeguato a chi non potesse eventualmente salire per le scale. Tuttavia l’evento rimane eccezionale, si tratta di altri argomenti da discutere separatamente. L’arte e la cultura non devono essere discriminanti ad uso e consumo solo di alcuni, ma dovrebbero essere i temi principali per integrare chiunque ne sia interessato.