Come ogni anno, il mese di settembre si apre con la visita presso il festival di fotografia SiFest, organizzata dall’associazione Savignano Immagini in collaborazione con il Comune della stessa città.
Titolo di questa edizione del festival è Asinelli solitari, che quest’anno ha deciso di omaggiare Pier Paolo Pasolini a cento anni dalla sua nascita. Omaggio che racconta e rispecchia ad oggi il Sessantotto, un’epoca tribolante in cui Pasolini inaugurava la rubrica giornalistica “Il caos” raccontando contestazioni giovanili, trasformazioni culturali, conflitti tra nazioni e angoli di mondo refrattari al caos, punteggiati di “asinelli solitari” dalle “lunghe teste piene di quella loro saggezza ostica e poco effabile”. Allo stesso modo il SiFest cerca di restituire con le immagini una nuova epoca rivoluzionaria, la condizione sociale, politica e culturale del nostro tempo.
Novità dell’anno è la direzione artistica, quest’anno capitanata dal fotografo Alex Majoli, autore in piena attività a livello internazionale.
Alex Majoli autore di prestigiosi progetti fotografici e creatore del Cesuralab, collettivo indipendente nel panorama della fotografia internazionale, sceglie come luoghi espositivi, le scuole primarie, nonché luoghi di formazione ed educazione per crescere e divulgare informazioni attraverso la fotografia. Anche quest’anno il ruolo centrale del festival è stato affidato ai concorsi che aprono alle nuove tendenze della fotografia, come il Premio Marco Pesaresi, dedicato al fotoreportage e il Premio Portfolio, la cui lettura dei progetti richiama in piazza un flusso notevole di fotografi da tutta Italia.
Rispetto alle scorse edizioni, percorrendo le varie tappe del festival, è subito evidente il cambiamento espositivo e organizzativo del festival. Se negli scorsi anni le sale espositive sparse per la città non erano ben segnalate da totem dislocati lungo il percorso, quest’anno invece, le sale sono ben segnalate con indicazioni riguardanti direzione e luogo della manifestazione.
Altra differenza e nota negativa riscontrata rispetto alle scorse edizioni, è stato sicuramente lo scarseggiare del materiale esplicativo per i visitatori, utili per comprendere e interpretare i progetti esposti, la cui stampa fornita risultava poco leggibile, piena di errori e per certi versi incentrata più sulla vita dei fotografi che non sui progetti. Informazioni che a mio parere sono molto utili soprattutto se riportate prima dell’accesso alle mostre, perché se da un lato accolgono lo spettatore, dall’altro guidano il visitatore poco esperto nel viaggio fotografico che andrà poi a vivere in autonomia nelle sale del festival.
Iniziando il tour dal primo spazio espositivo diviso su due piani, accediamo alla Scuola primaria Dante Alighieri. Proprio per la scelta delle aule come spazi espositivi, quest’anno ogni mostra è associata a una materia di insegnamento. Un percorso in cui la matematica e la fisica sono reinterpretate attraverso le immagini in bianco e nero di due fotografi, l’inglese Stephen Gill e il newyorkese Stanley Greenberg, autore che domina tra le aule del SiFest con un reportage sui luoghi della ricerca scientifica con telescopi solari e spettrometri.
Per la biologia, la geografia e la religione il campo si estende al linguaggio video con i progetti di Michele Sibiloni, dell’olandese Erik Kessels e del duo brasiliano Bárbara Wagner & Benjamin de Burca. Tra questi, la mia attenzione è ricaduta sul progetto di Sibiloni nella sezione biologia con il video intitolato “Nsenene”, in cui il fotografo documenta la suggestiva attività redditizia dell’Uganda in cui enormi sciami di cavallette, migrano riempiendo i cieli poco prima dell’alba e nell’occasione molti ugandesi restano svegli per catturarli.
Un video surreale e spiazzante in cui il movimento dello sciame diventa sempre più intenso e contrapposto al movimento lento delle figure che attendono pazienti la cattura.
Percorrendo i corridoi della scuola, ci immergiamo nella sezione scienza, in una delle esposizioni di grande impatto emotivo, in cui viene riportata l’attenzione alla lotta di Franco Basaglia. Un reportage sulla chiusura dei manicomi con le stampe fotografiche del libro “Morire di classe del 1969″ di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin. Un viaggio riflessivo e straziante nel vissuto dei malati psichiatrici dei manicomi degli anni 60.
Qui, impotenza e sconforto accompagnano la visione, il cui sguardo si perde tra queste pagine di storia realmente vissuta in cui l’umanità viene privata in ogni suo aspetto.
Immagini documentarie accompagnate da citazioni tratte da opere, leggi e bandi che negli anni hanno raccontato e studiato il fenomeno dei manicomi, della schizofrenia e della demolizione psico-fisica dell’essere umano.
Il perfetto ricoverato all’apice di questa desolante carriera la cui meta sembra, paradossalmente, la distruzione del malato, sarà quello che si presenta completamente ammansito, quello che si lascia pulire, imboccare che non ha più reazioni personali. Alla fine di questo processo di disumanizzazione, il paziente che era stato affidato all’istituto psichiatrico perché lo curasse, non esiste più: inglobato e incorporato nelle regole che lo determinano.
È un caso chiuso.
Etichettato in modo irreversibile, non potrà più cancellare il segno che lo ha definito come qualcosa al di là dell’umano, senza possibilità di appello.Franco Basaglia, L’utopia della realtà
… E guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono! Per esempio: ”pazzo!” – Per esempio, che so? – “imbecille?” – Ma dite un po’, si può star quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere agli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi?. . . Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete cosa significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni!…
Luigi Pirandello, Enrico IV
La sezione storia presenta invece una collettiva che ripercorre gli avvenimenti degli ultimi vent’anni attraverso immagini di agenzie come Associated Press, Magnum Photos e Reuters.
Fra i vari autori c’è anche spazio per la fotografia automatica nella sezione educazione fisica, allestita proprio nella palestra dell’istituto, con una selezione di fotofinish olimpici. La fotografia generata da dispositivi automatici fissi che ferma il movimento e lo scorrere del tempo, cimentandosi nella cattura dell’istante.
La mostra presenta dodici istanti, nonché dodici arrivi, dai giochi olimpici di Mebourne del 56 a Sydney 2000, tratti dagli archivi del CIO e legati alla disciplina dell’atletica leggera, simbolo dei giochi.
Il fotofinish rivoluzionerà la fotografia, infatti sulla scia degli studi di alcuni artisti pionieri dell’Ottocento come Marey e Muybridge, che inventeranno apparecchiature per scomporre i movimenti in una serie di fotogrammi, allo stesso modo il fotofinish introdotto per la prima volta alle Olimpiadi del 1932, scompone il movimento in attimi che segneranno poi la storia dello sport.
La nostra visita al Festival si sposta poi nella seconda tappa dell’esposizione presso l’Istituto comprensivo “Giulio Cesare”. Spazio che accoglie la sezione di educazione civica, letteratura, musica e religione con i progetti della più grande fotografa del Novecento Lee Miller, il viaggio nella scena rave musicale della giovane Chiara Fossati, la riflessione multiculturale di Marwan Bassiouni e il connubio tra fotografia e scrittura degli autori Duane Michals, Jim Goldberg, Lalla Essaydi e Kevin Clayborne.
Proprio questi ultimi hanno fatto da apri fila nella tappa all’Istituto comprensivo con reportage prevalentemente in bianco e nero e un dialogo intimo tra scrittura e fotografia. Particolare tra tutti, gli scatti di Jim Goldberg, autore più rappresentativo della fotografia contemporanea le cui foto, contraddistinte dalla presenza innovativa del testo, indagano sugli individui e sui miti della società marginale americana. Nel suo progetto Fingerprint presentato al SiFest, l’autore attraverso le sue Polaroid, racconta la storia di alcuni teenagers finiti a vivere per le strade della California.
I testi scritti a mano sulle stampe, ci immergono nel pieno del suo progetto rendendo tangibile il momento in cui i giovani scarabocchieranno le foto per dare voce alle loro sfide.
Non riesco a reprimere il desiderio, l’impulso, la volontà di credere in una società in cui le cose miglioreranno davvero. Se non altro, continuo a sperare che ancora oggi le mie fotografie e tutte le persone che ho incontrato parlino da sé.
Jim Goldberg, Artista e fotografo
Su questa scia troviamo anche Duane Michals, massimo esponente della fotografia artistica, che racconta i miti e le ossessioni umane con i suoi ritratti di strada. Nelle sue sequenze narrative e a tratti pittoriche, l’autore esplora l’emotività umana e il complesso mondo interiore.
Un viaggio introspettivo che ci trasporta a prima vista, in una riflessione profonda sull’umanità e sulle relazioni socio-culturali in cui il pensiero scritto diventa indizio e chiave di interpretazione dell’immagine.
Sezione interessante è stata anche quella dedicata alla musica di Chiara Fossati, con il suo progetto Whatever, in cui documenta il mondo senza regole, gli ambienti della scena musicale tecno e la cultura rave. L’autrice racconta in prima persona la sua esperienza in questa realtà che l’ha vista protagonista durante la sua adolescenza, mostrando vite, persone e aspetti che più si nascondono dietro le facciate più comuni.
Osservazione più lunga nella nostra visita, è stata dedicata alla sezione educazione civica con le immagini dell’autrice Lee Miller. Ci ritroviamo così immersi nella documentazione monocromatica degli orrori della seconda guerra mondiale, ma anche nella sofferenza e nella distruzione dell’Est Europa del dopoguerra. Le fotografie in mostra sono prettamente ritratti di momenti che tracciano la fine del conflitto, come la Guardia SS morta suicida a Buchenwald nel 1945, o ancora i Prigionieri in divisa a righe appena liberati accanto ad un mucchio di ossa dei deportati bruciati nei forni crematori.
Fotografie che in un’epoca di incertezze e di stravolgimenti storici in cui ci si è ritrovati ad assistere a scene brutali di uccisioni, fosse comuni ed emergenza globale, fanno riflettere su quelle che sono le azioni dell’uomo e sulle conseguenze possono poi riversarsi su intere generazioni.
Lasciata la suddivisione della mostra in materie, la nostra visita al festival prosegue negli spazi dell’ex Consorzio di Bonifica in cui spiccano tre autori i cui progetti pongono l’attenzione su dimensioni scolastiche opposte: gli studenti guerrieri talebani dell’Afghanistan della collezione di Thomas Dworzak, l’ambiente universitario e la vita nello studentato più antico del Giappone di Kanta Nomura e la Lettonia post sovietica degli anni Novanta di Ivars Gravlejs.
Accedendo al primo piano del Consorzio, arriviamo nella sala del progetto Early Works del fotografo lettone Ivras Gravelis, le cui foto sospese e adagiate sul pavimento, ingannano subito la nostra attenzione. La sensazione di spaesamento iniziale si trasforma poi in palese provocazione i cui scatti puntano a canzonare i canoni estetici del mondo adulto, documentando la vita scolastica nella Lettonia degli anni Novanta.
Percorrendo le sale successive, ci imbattiamo poi nel progetto The Yoshida Dormitory Student’s History del fotografo giapponese Kanta Nomura, uno dei progetti più travolgenti di tutta l’esposizione. Sia per merito del progetto, sia per il tipo di allestimento, il progetto a mio avviso è in grado di trasportare il visitatore nel vissuto della cultura universitaria giapponese. Il senso di piena immersione è restituito dalle stampe sulle pareti raffiguranti gli spazi interni dello studentato i cui graffiti ne esaltano il vissuto e la storicità del posto.
Lo studentato ha più di cent’anni e conserva le tracce ei ricordi lasciati dai tantissimi studenti passati di lì. È stato a lungo in fermento, e ancora oggi emana un odore intenso, che non accenna a sparire.
Kanta Nomura, The Yoshida dormitory students
Pieno coinvolgimento al suo progetto fotografico è dato dalla sala in cui viene simulata la camera oscura scoperta nello studentato, dove l’autore ricomincerà a stampare durante il suo soggiorno. Luci rosse, tende e pellicole riportate su corde tese lungo la diagonale della sala, ci riportano nel vivo del processo fotografico, dandoci la sensazione di vivere l’esperienza dello sviluppo nella camera oscura in prima persona.
Tra cumuli di spazzatura, ho trovato della carta fotografica di un tempo, polverosa e ammuffita. E se avessi stampato delle nuove foto dello Yoshida su quella vecchia carta che aveva assorbito tutto quel tempo?” Con questa idea in testa, ho rimesso in sesto la vecchia camera oscura a lungo dimenticata, per utilizzarla una volta ancora. In questa camera speciale, ho cominciato a stampare.
Kanta Nomura, The Yoshida dormitory students
Ritornando al pian terreno del Consorzio, percorriamo le sale che ospitano invece i progetti di fotografi vincitori di alcuni concorsi legati al SiFest come Luca Meola vincitore del premio Portfolio “Werther Colonna”, Andrea de Francisis Premio “Marco Pesaresi” Delhirium e Ilaria Sagaria Premio Portfolio Italia – Gran Premio Fujifilm “Piena di Grazia”.
Tra queste, l’esposizione che mi ha maggiormente colpito è quella di Luca Meola in cui l’autore racconta la storia del crack e di Cracolândia
, nonché il mercato dello spaccio di stupefacenti più grande al mondo nel cuore di San Paolo, in Brasile. Qui Meola porta alla luce il degrado e il vissuto del popolo al margine della società brasiliana attraverso i ritratti delle figure centrali della comunità dello spaccio, come prostitute, spacciatori, ambienti fatiscenti e le condizioni di estrema povertà.
Guardando i suoi scatti, ci si ritrova immersi nelle singole storie degli individui fotografati, dalle quali traspare non solo la condizione di degrado delle comunità delle favelas, ma soprattutto le dinamiche di una società senza controllo in cui nella maggior parte dei casi le persone finiscono in strada per diseguaglianza, disoccupazione e mancanza di politiche di sostegno dei più fragili che diventano poi vittime del consumo.
La comprensione e fruizione di questo progetto documentaristico è stato possibile grazie alla presenza dei QR Code posti sotto ai singoli scatti grazie ai quali una voce narrante, racconta la sua esperienza e l’incontro con le storie dei soggetti fotografati. La presentazione vocale di ogni opera ci ha permesso di cogliere ogni aspetto della sua narrazione, trasportandoci emotivamente in realtà a noi così distanti.
Insomma visitare il SiFest lascia sempre gli occhi e il cuore ricchi di emozionanti contenuti da raccontare, per ricordarci che solo guardando la realtà da altri punti di vista, possiamo realmente comprendere ciò che ci circonda, liberando il pensiero limitato dal pregiudizio e rendendo più forte la capacità analitica del pensiero.
Rispondendo all’esigenza di trascrivere per immagini avvenimenti sempre attuali, la fotografia del SiFest, riesce a cogliere appieno la dimensione oggettiva delle cose senza filtri.
Accessibilità
Come accade in ogni mostra o Festival d’arte e fotografia, l’accesso agli spazi risulta sempre la parte più critica e poco curata dell’evento a causa della scarsa attenzione che si pone nei confronti di quelli che possono essere disagi da parte del visitatore. Questo perché ad ogni luogo di esposizione, corrisponde una barriera che limita l’accesso ai visitatori più fragili contribuendo ad aumentare il già presente disagio fisico.
Nel caso del SiFest, trovo davvero assurdo che in una scuola, ospitante una collettiva fotografica, sia presente un ascensore per l’accesso ai piani superiori, ma spento e per di più con personale preposto, non preparato. Cosa più sconcertante è in tutto questo, l’indifferenza totale al problema da parte di organizzatori e istituzioni che non si preoccupano minimamente di disporre di mezzi per l’accesso ai piani o non limitano il disagio che una persona con difficoltà può riscontrare in ambienti non accessibili.
Rendere gli spazi accessibili, significa rendere gli eventi fruibili a tutti, indipendentemente dal tipo di problematiche.
L’esclusione alla partecipazione parte dal principio perché chi vive giornalmente un disagio non dovrebbe trovarsi difronte a condizioni che amplificano il disagio stesso, magari acquistando il biglietto, ignaro dell’impossibilità di raggiungere poi tutti gli spazi.
Il problema può valere non solo per una persona con difficoltà fisiche evidenti, ma anche a donne in gravidanza o anziani che per diverse ragioni non possono salire le scale o hanno difficoltà nel farlo.
Penso che su questo fronte c’è ancora tanto da fare e da imparare. Si parla tanto di disabilità e di inclusione, ma è più facile a dirsi che a farsi perché quando poi ci troviamo davanti ai fatti, la realtà è ben diversa.
L’esclusione non viene solo da una mancanza strutturale, ma soprattutto da una mancanza di sensibilità legata alla scarsa predisposizione degli individui in generale di comprendere e approcciarsi a certe problematiche.
Insomma l’intento non è fare necessariamente critica, ma in generale penso che dovremmo guardarci tutti un po’ nel profondo e imparare a metterci nei panni dell’altro per comprendere il come ci si sentirebbe se privati dell’autonomia necessaria per considerarsi davvero liberi di essere e di pensare.