Tutti nella vita siamo passati da diversi agglomerati sociali come le varie scuole e università che frequentiamo fin da tenera età, prima di entrare nel mondo del lavoro. Anche in quest’ultimo, nella stragrande maggioranza dei casi, dobbiamo dividere il nostro spazio con qualcuno.
Com’è noto e come sicuramente molti di voi hanno potuto sperimentare sulla proprio pelle, sia come semplice spettatore che come protagonista, può capitare di ritrovarsi in un gruppo sociale poco amichevole, dove ad opera di alcuni componenti, si perpetuano atti di discriminazione, razzismo, mobbing, anche solo per pura goliardia.
Io, nella mia esperienza personale, non accuso estremamente il colpo quando ricopro il ruolo della vittima, al contrario sono sempre stato abbastanza curioso di comprendere questi atteggiamenti. Mi è capitato quindi, anche in più di un’occasione, di conoscere più a fondo il mio aguzzino al fine di comprendere i meccanismi che si nascondevano dietro questi comportamenti, e più spesso di quanto non mi aspettassi, fuori dal gruppo è stato come conoscere una persona completamente diversa.
L’esperimento carcerario di Stanford
Nel 1971 il dottor Philip Zimbardo dell’Università di Stanford, condusse un esperimento di psicologia sociale che ad oggi è ritenuto una tematica classica del campo¹. Dopo aver reclutato un gruppo di 24 volontari in maniera totalmente casuale, assegnò un ruolo ad ognuno di loro, dividendoli in 2 gruppi di 12. I prigionieri erano divisi in celle da 3 posti, a 15 dollari al giorno per 2 settimane.
Da una parte i prigionieri e dall’altra le guardie del carcere, ovviamente simulato. Anche lui prese parte all’esperimento autonominandosi direttore di questa finta prigione.
L’esperimento fu interrotto dopo appena 6 giorni a causa dei risvolti drammatici. I volontari che rivestivano il ruolo di guardia, erano diventati violenti e vessatori nei confronti dei carcerati che iniziarono a manifestare disgregazione individuale, collettiva e apatia.
Il secondo giorno avvennero i primi atti di violenza, i carcerati si barricarono nelle celle e si strapparono le divise, le guardie si vendicarono facendoli defecare in dei secchi che non potevano svuotare, o tentando di vessarli e umiliarli.
Sul sito della Stanford University sono disponibili le gallerie fotografiche dell’esperimento.²
I comportamenti all’interno dei gruppi erano diversi, alcuni carcerati erano docili e collaborazionisti, altri erano avversi e provocatori. Le guardie dal canto loro, sembravano godere totalmente del potere designato alla loro figura, nonostante i test psicologici precedentemente svolti non avevano rivelato alcuna probabilità di una tale attitudine.
Ma perché fu condotto questo esperimento? In quel periodo Zimbardo era uno psicologo ricercatore molto attivo nella dimostrazione che il contesto sociale influisca sul comportamento dell’individuo, tesi contrastante con la diffusa convinzione degli psicologi dell’epoca che le condotte antisociali e violente dei carcerati si potessero attribuire unicamente alla personalità individuale.
Solo poche persone erano in grado di resistere alla tentazione di cedere al potere e dominio
Philip George Zimbardo, Psicologo e ricercatore
Da qui nacque la definizione di “effetto lucifero”, ovvero il comportamento violento che assunsero delle persone ritenute ordinarie e buone, capaci in un particolare contesto sociale di assumere comportamenti disumani. Questo risultato metterebbe in dubbio che il nostro comportamento non derivi solo da chi siamo, ma può essere determinato anche dalla situazione in cui ci troviamo. Lo studio è stato approfondito negli anni da diversi studi e da diversi ricercatori.
L’esperimento fu comunque piuttosto controverso e criticato, ritenuto non etico e non ripetibile in quanto non soddisfacente i numerosi standard imposti dai codici etici.³ Tuttavia rimane un’importante pietra miliare delle pubblicazioni riguardanti l’importanza del contesto sul comportamento individuale.
De-individuazione e l’autorità legittimante
Nell’esperimento di Zimbardo furono pensati dei particolari che potessero innescare la de-individuazione, come ad esempio le divise delle guardie tutte uguali e occhiali da sole riflettenti per rendere difficoltoso il riconoscimento.
È affascinante notare come in fin dei conti questi fenomeni, seppure in maniera più leggera e inconsapevole, vengano riprodotti in diverse situazioni quotidiane che prevedono la convivenza di gruppi per una certa durata di tempo. Per un individuo l’appartenenza ad un gruppo può essere predominante, ed è proprio in questa condizione che inizia a far vacillare la consapevolezza di se stessi, una sorta di riduzione del senso di responsabilità derivante dalle proprie azioni e da una maggiore percezione di anonimato.
Un’aggravante, attiva o silenziosa che sia, può essere l’autorità che legittima questo genere di comportamenti. Nel caso dell’esperimento carcerario di Stanford, Zimbardo ricoprendo il ruolo di direttore del carcere, e avallando alcuni dei comportamenti violenti delle guardie, ha contribuito ad una de-responsabilizzazione, tesi sostenuta in un altro esperimento sociale del 1961 di Stanley Milgram.⁴
L’effetto Lucifero è quindi causato da meccanismi mentali influenzati dal contesto. Questo esperimento, per quanto possa essere discutibile, dovrebbe far meditare circa i comportamenti immorali che spesso vengono sostenuti da individui che proteggono l’immagine che hanno di se stessi cercando delle giustificazioni circa il proprio operato, negando indirettamente la realtà, in modo da non abbassare la stima di se stessi o di non provare colpa verso le vittime.
Nella vita quotidiana
Nei posti che frequentiamo quotidianamente possono concretizzarsi delle piccole realtà che richiamano questo esperimento. Mi riferisco ovviamente a questioni più blande, come l’autorità legittimante di un capo che riserva un trattamento comparato a chi non rispetta le regole aziendali, o del gruppo di colleghi o compagni di scuola che attraverso discriminazione, scherzi o fazioni prestabilite stabilisce una minoranza da bersagliare.
Spesso queste coalizioni, che ho incontrato io stesso durante i miei anni di scuola e di lavoro, comprendono anche individui che da soli non avrebbero quel comportamento molesto, creando una situazione analoga (più moderata se non in casi limite) rispetto a quella dell’esperimento carcerario di Stanford.
Chiaramente in questo articolo si invita soltanto a riflettere circa tante piccole situazioni non gradevoli che si possono vivere negli abituali luoghi di aggregazione, e non un messaggio di allerta nei confronti degli altri. Anzi, si tratta proprio dell’opposto, di un invito ad osservare chi ci sta intorno, soprattutto nel comportamento espresso nelle varie situazioni.
Sicuramente sarà possibile scoprire una persona migliore (o peggiore) rispetto alla situazione in cui l’abbiamo conosciuta inizialmente, si tratta comunque di uno specchio sulla maturità e sull’emotività degli altri e di se stessi.
Bibliografia
- Philip G. Zimbardo, Stanford Prison Experiment, August 15-21, 1971 – Home
- Philip G. Zimbardo, Stanford Prison Experiment, August 15-21, 1971 – Photogallery
- Le Texier T. Debunking the Stanford Prison Experiment. Am Psychol. 2019;74(7):823-839. doi:10.1037/amp0000401
- Russell NJ. Milgram’s Obedience to Authority experiments: origins and early evolution. Br J Soc Psychol. 2011;50(Pt 1):140-162. doi:10.1348/014466610X492205