Cultura e società

Lavoro, realizzazione e dignità professionale

In un articolo precedente, “Generazioni a confronto, una scala di grigi generazionale“, affrontai le diverse esperienze generazionali così come vengono classificate dai mass media.
Dividendo le generazioni per eventi di massa che hanno condizionato poi la vita delle persone appartenenti a determinati periodi storici recenti, abbiamo esaminato condizioni di vita e di lavoro. In questo articolo approfondiremo la questione lavorativa, per i più giovani, per i meno giovani e in generale sulle implicazioni personali.

Realizzazione personale o professionale?

Quando parliamo di lavoro non stiamo facendo riferimento a qualcosa che sia una mera fonte di sostentamento. Il nostro lavoro è spesso ciò che occupa la maggior parte della nostra giornata, e nel caso di chi ha passato la gioventù o gran parte della vita a studiare, a formarsi e/o a fare esperienze, c’è sempre un’aspettativa di realizzazione professionale.
Molti dei lavoratori odierni sono spinti a fare del loro meglio, spesso anche oltre le proprie possibilità, a causa di preconcetti sul lavoro. Preconcetti del tipo “il lavoro nobilita l’uomo” che sicuramente sarà vero, ma anche la salute lo nobilita. Nel mondo del lavoro attuale si è infiltrato (o meglio non è mai svanito) quel pensiero secondo cui più lavori, più produci e più puoi sentirti in pace con te stesso (un po’ come recitava Giovanni Lindo Ferretti in Morire dei CCCP, “produci, consuma, crepa“).

Questo modo di pensare arriva dalle generazioni passate, da quei tempi in cui chi lavorava riusciva a sostentare l’intera famiglia, a possedere una casa e a mettere un gruzzoletto da parte. Al giorno d’oggi tutto questo nella stragrande maggioranza dei casi è pura fantascienza, ed è grande motivo di frustrazione.
Ma cosa intendiamo per realizzazione? Credo che molto più spesso di quanto non si creda, si fa confusione tra realizzazione personale e realizzazione professionale.

La realizzazione professionale è solo una parte della realizzazione personale. È importante non identificarsi con la propria figura lavorativa per permettere a se stessi di crescere come individui su diversi fronti

La realizzazione personale passa per la formazione caratteriale dell’individuo. La sua formazione e realizzazione è composta da diverse aree. Fin dalla nascita, la realizzazione personale ha un ruolo fondamentale nella vita di un individuo, ed è un percorso per scoprire talenti e predisposizioni da sfruttare per ottenere dei successi che contribuiranno ad una vita serena. Attraverso le proprie abilità, si cerca di ottenere successo nella sfera privata e nell’ambito professionale.
Queste inclinazioni personali sono spesso implicite, quindi vanno scoperte e coltivate. La capacità di ottenere dei successi passa attraverso una maggiore conoscenza di se stessi. La realizzazione personale è quindi conoscere la propria individualità, le proprie caratteristiche e sfruttarle al meglio.
La realizzazione professionale invece è raggiungere i propri obiettivi in ambito lavorativo. È importante non identificarsi con il proprio lavoro, separare se stessi dalla propria figura professionale e ricordarsi che è importante impegnarsi per raggiungere delle mete.
È bene tenere presente che nella vita c’è anche altro, che la crescita personale non termina mai ed è importante progredire come individui a 360 gradi.

L’inettitudine umana e l’annichilimento della professione

Fatta questa piccola ma essenziale disambiguazione, parliamo meglio della realizzazione professionale. L’evoluzione dei mezzi lavorativi degli ultimi anni ha messo a dura prova la competenza umana. I settori di specializzazione si sono moltiplicati, mettendo in risalto l’inettitudine umana di qualsiasi individuo con abilità nella media.
È praticamente impossibile essere degnamente preparati ed esperti su più settori, o addirittura su più specializzazioni dello stesso settore. Sarebbe molto difficile per un medico essere un esperto endocrinologo ed allo stesso tempo un esperto di chirurgia generale. Potremmo definire impossibile, per un essere umano medio, essere il massimo esperto in più di un paio di settori specifici.

L’appiattimento della professionalità in alcuni ambienti, come ad esempio i call center, potrebbe farti sentire come un pollo in batteria. Tutti sono utili ma nessuno è necessario.

Questo ha reso impossibile dare più responsabilità al singolo, sia per questioni di sostituibilità, che per questioni di impossibilità ad essere preparati su tutti gli ambiti di cui si dovrebbe essere responsabili. Potrebbe sembrare che il risultato sia stato una distribuzione delle responsabilità, alleggerendo il singolo e responsabilizzando il gruppo. Purtroppo non è così, tutto questo ha generato un annichilimento della professione.
È sempre più comune avere l’impressione di essere diventati parte di una catena di montaggio in cui non ci si sente essenziali, perché in realtà non lo si è e non lo si deve essere. Abbiamo l’obbligo di essere funzionali ma sostituibili.
È plausibile che questo modello avrebbe dovuto portare il gruppo di lavoro a diventare un unico organismo in grado di dare vita a servizi, consulenze e prodotti ad un livello superiore. Tuttavia in una società in cui la realizzazione personale è fortemente individuale, finiamo per essere individuali all’interno di un ecosistema che non diventa mai un organismo correttamente funzionante. Ciò che si riscontra più spesso è che ognuno fa il suo lavoro alla “meno peggio”, questo vale sia per chi lo fa controvoglia che per chi invece vorrebbe fare di più ma non può. Un essere composto da tante piccole cellule deve avere delle cellule funzionanti nella loro interezza, pena la morte dell’intero organismo.
Per fare un esempio chiaro, potremmo parlare dei reparti oncologici, dove spesso oncologi, radioterapisti, infermieri ed altri specialisti, commettono errori grossolani dovuti ad una mancanza di comunicazione e coordinazione. Queste situazioni annientano la professionalità e davanti a questi scenari, tanti soggetti reagiscono diventando apatici e svogliati, rinunciando alla propria dignità professionale, sviluppando una vera e propria sindrome da burn-out.
La sindrome da burn-out è il ciclo con cui si descrive un annichilimento professionale.

Tutto inizio con grande entusiasmo e con un’idealizzazione del lavoro, dei propri obiettivi e delle funzioni che dovrebbe svolgere la propria figura lavorativa. Successivamente alla mancata collimazione dell’idealizzazione con la realtà, ci si scontra con una stagnazione della propria carriera, che genera frustrazione.
Se a seguito della frustrazione ci saranno tentativi vani di progredire nella carriera, la frustrazione sfocerà in un disinteresse e disimpegno nei confronti del proprio percorso professionale.

Comfort Zone

L’annichilimento della professionalità non fa distinzione tra figure di alto o di basso livello, è un problema che dipende dall’organizzazione a cui si appartiene e può essere propria anche degl’impieghi pubblici.
La sfortuna può portarti a lavorare in più posti in cui avviene questo meccanismo di distruzione della dignità professionale. È proprio in quel momento che, quando le nostre energie si riducono e il nostro entusiasmo sta toccando il fondo, potremmo decidere di rifugiarci in una zona di comfort.

La zona di comfort può rappresentare una trappola da cui è difficile uscire. La routine e la paura di peggiorare la propria condizione possono portarci ad accettare condizioni che ci danneggiano

È comune credere che a 25 anni si è troppo giovani e a 35 troppo vecchi per fare qualsiasi cosa. Merito dell‘inettitudine intrinseca che effettivamente esiste, ma che viene trasmessa amplificata dagli annunci di lavoro, dove spesso è possibile apprezzare richieste ben oltre la media.

Ci si sente inadatti e quindi ci si accontenta anche di qualcosa che non ci soddisfa o che non ci appartiene, ma che ci permette di galleggiare a pelo d’acqua, portandoci ad accettare condizioni o quotidianità, che ci proteggono dal rischio ma che portano una latente sensazione di apatia e frustrazione.
Anche qui entra in gioco l’avversione alla perdita. L’abitudine, la sicurezza di ciò che conosciamo e la paura del ripetersi di esperienze negative, ci fa provare un dolore maggiore nel cambiare ciò che possediamo di positivo, seppur poco, valutando come irrimediabile la perdita di quei lati positivi.
La comfort zone è l’ennesimo incastro di pensieri non critici che portano alla vendita della nostra dignità professionale, che si porta via anche un pezzo della nostra realizzazione personale oltre che quella professionale.

Ambienti tossici

Una grave combinazione di fattori può risultare dall’accettazione di una comfort zone ed il vivere un ambiente lavorativo tossico. Non parlo di un lavoro che non ti piace, di incomprensioni saltuarie e brutte giornate che possono capitare in qualsiasi contesto lavorativo soprattutto dove i tempi sono stretti, mi riferisco a situazioni malsane croniche.
Un ambiente di lavoro tossico genera stress, tensione, mancanza di comunicazione e nei casi peggiori mobbing o bullismo.

Negli ambienti lavorativi tosici, la formazione di combriccole che si comportano in modo esclusivo allontanando i soggetti non facenti parte della cerchia affiatata, sono un grave segnale allarmante

L’annichilimento della professionalità di cui ho parlato prima, può essere accompagnata da poca chiarezza, comunicazione scarsa e preferenziale di un datore di lavoro o superiore. Un capo negligente può creare confusione, uno troppo zelante e prepotente potrebbe impedirti di fare il tuo lavoro e minare la tua autostima, le casistiche possono essere le più variegate.

Ognuna di queste condizioni può portare a dipendenti non motivati. A loro volta causeranno uno squilibrio sul carico di lavoro che potrebbe ricadere su di te, facendoti provare rabbia e frustrazione. Se sei bloccato in una comfort zone queste situazioni potrebbero danneggiarti.
Un ambiente può essere malsano anche per problematiche differenti rispetto a quella del cattivo operato a livello lavorativo, la componente sociale non è da sottovalutare. Quando si entra in un gruppo di lavoro bisogna sempre ricordare che, prima e dopo il tuo arrivo, si instaurano rapporti di ogni tipo. In ambienti particolarmente poveri di aspettativa, dove l’annichilimento è a livelli estremi, possono sussistere pettegolezzi, gruppi preferenziali, combriccole che danno vita a estromissioni, omissioni e bullismo.
Come potremmo aver già visto nel periodo scolastico della nostra vita, un gruppo esclude tutti quelli che sono esterni al circolo di affiatamento. Per quanto non sia sbagliato fare amicizia con i propri colleghi, il comportamento in assoluto da evitare sul posto di lavoro è quello da cricca di amici, che pranza e prende il caffè insieme, evitando di comunicare col resto dei dipendenti, organizzando eventi in modo palese davanti a terzi implicitamente esclusi.
L’apoteosi della tossicità avviene nel momento in cui a questi atteggiamenti da comitiva esclusiva partecipano figure dirigenziali.

Conclusioni

Le problematiche relative alle attività lavorative, alla formazione e agli ambienti, al giorno d’oggi sono le più disparate.
È necessario rendersi conto che la propria realizzazione personale non è quella professionale, anche se le due sono in parte complementari, la seconda è parte della prima. I riconoscimenti sono molto importanti, tuttavia è un dato di fatto che quello che attualmente ci permette di guadagnare uno stipendio medio, non ci darebbe l’opportunità di realizzare quanto potevano le generazioni precedenti.
È opportuno quindi limitare i danni, dare la giusta importanza al nostro lavoro e alla nostra vita privata, cercando di non far sconfinare l’una nell’altra.
Evitare di idealizzare la propria figura professionale, osservando in modo obiettivo il mondo del lavoro e non farci sopraffare da quello che ci mostrano gli altri, convincendoci di aver fallito e di non essere all’altezza.
Il lavoro non rende felici, ma può donare serenità. Dovremmo cercare di rimanere umili, puntando alla serenità quotidiana accompagnata da una dignità professionale ed economica rispetto al contesto in cui siamo.
Non dobbiamo accettare ambienti e comportamenti tossici. Il cambiamento, se motivato, porterà altri lati positivi ed altri lati negativi, dandoci la possibilità di conservare l’entusiasmo di cui abbiamo bisogno per prendere nuove decisioni e migliorare sempre, seppur di poco, la nostra condizione.

 

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Daniele Contino è un sistemista reti e servizi informatici con esperienza ventennale nell'assistenza tecnica informatica. Ha lavorato sia in ambiti corporate multinazionali che come imprenditore, ricoprendo ruoli che spaziano dall'informatica, all'amministrazione, alla vendita e al commerciale. È autore, webmaster e fondatore di Superchio.it nato dalla passione per la lettura, soprattutto di saggi, e la scrittura, ma anche per la condivisione delle proprie passioni con gli altri. Missione principale del magazine è infatti quella di condividere le proprie conoscenze e tentare di divulgare le proprie competenze.