John Costable, per chi non lo conoscesse è uno tra i pittori del romanticismo che studiò per ore e ore il cielo che finì col meritarsi l’appellativo di “pittore delle nuvole”.
Le nuvole sono cangianti, in continuo movimento, si allungano, si uniscono, si fondono. Se vi siete fermati almeno una volta ad osservare il cielo vi sarete accorti che in pochi minuti tutto cambia, creando scenari sempre nuovi, intingendo il pennello in nuovi colori e nuove sfumature. C’è chi preferisce l’alba, chi l’imbrunire, chi il tramonto, chi adora osservare il cielo stellato… In qualunque momento lo si guarda non si può nascondere il suo fascino ancestrale.
Se è vero che le nuvole cambiano forma velocemente, fondendosi e allontanandosi, possiamo dire lo stesso delle nostre emozioni?
Avevo già parlato delle emozioni in “Ragione è sentimento, una possibile convivenza“, uno dei precedenti articoli, ma in questa occasione vorrei approfondire l’argomento da una prospettiva differente, mescolandoli con l’arte.
Tiffany Watt Smith ha studiato così a fondo le emozioni da farne un vero e proprio atlante1. All’interno è possibile trovare emozioni di ogni tipo e per ogni cultura. Descrive, ad esempio, come il sentire dei nativi europei non è lo stesso per una tribù indigena2 e trovo molto interessante il fatto che, nonostante noi esseri umani siamo dotati di emozioni primarie universali tutto il resto che ci attraversa è frutto di una costellazione molteplice fatta di usi, costumi, tradizioni e credenze.
Ho già avuto modo di testare, attraverso i social media che un tramonto può suscitare nostalgia, malinconia, tristezza o calma a seconda del vissuto del singolo soggetto. Così come l’arte anche le emozioni hanno una tavolozza di colori infinita, per comodità, ci hanno insegnato a differenziare le emozioni in soli due colori “bianche e nere” ma non credo che queste siano esaurienti!
Così come cangiante è il cielo nei tramonti di Costable altrettanto intense sono le emozioni che attraversano il corpo umano. Una delle emozioni nuove che appartengono all’era digitale e che non è figlia del sviluppo ontogenico, prende il nome di ringxiety.
A tutti noi è capitato almeno una volta di sentire suonare o vibrare il proprio telefono e solo dopo aver visionato lo schermo rendersi conto che non era così. Questa sensazione non è frutto della nostra immaginazione, ma di uno stato di ansia legato all’iperconnessione digitale.
Siamo così in simbiosi con il nostro arto tecnologico che abbiamo sviluppato lo stesso istinto che un genitore ha nei confronti del proprio bambino!
Il termine ringxiety è stato coniato dallo psicologo David Laramie3 e, tra la geografia delle emozioni, la classifica come uno stato di ansia leggera ma sempre presente. Ma la ringxiety è figlia del bisogno innato di contatto umano o è indotta dall’eccessivo uso dei nostri smartphone?
Se osserviamo il fenomeno più da vicino possiamo dedurre che le nuove generazioni sono quelle che spesso pagano il conto più salato perché l’assenza di notifiche sul cellulare equivale ad un’alterazione nei rapporti sociali e sentimentali e questo porta con sé altre emozioni negative. Ad esempio se postiamo una nuova foto e riceviamo tanti likes, questo funge da rinforzo positivo e da stimolo per post futuri ma se nessuno mette like al post questo diventa sinonimo di carenza di popolarità e quindi di non amicizia e accettazione del gruppo4.
Dal punto di vista psicologico l’eccessiva focalizzazione sul device rischia di intensificare l’attenzione selettiva sul bip, a scapito dei rapporti con un familiare o un amico in carne ed ossa5 e dal punto di vista sociologico l’individuo non è più presente nel qui ed ora del momento, della relazione, dello scambio umano ma la sua mente sembra trattenuta dall’eventuale suono telefonico.
Larry Rosen co-autrice del libro “The distracted mind”6 afferma che “la maggior parte delle persone controlla il cellulare più o meno ogni 15 minuti anche quando questo non riceve notifiche”. Questo tipo di comportamento, oltre ad innalzare il nostro livello di cortisolo e, quindi, produrre maggiore stress è un impedimento alla nostra concentrazione.
Se Maria Montessori, nel secolo scorso, inneggiava alla polarizzazione dell’attenzione, oggi gli smartphone sono gli oggetti di dispersione per eccellenza. Esiti che si riversano anche sugli individui adulti con conseguenze nella produttività, nel lavoro e nello studio7. La corrente psicologica del comportamentismo sviluppatasi nel corso del Novecento porta con sé il famosissimo esperimento di B.F. Skinner. L’esperimento consiste nel condizionare la risposta dell’individuo in un comportamento atteso tramite un rinforzo positivo. Il topo, protagonista dell’esperimento, inserito all’interno della box è libero di muoversi ed è incoraggiato a premere una leva per ottenere del cibo (rinforzo positivo) o a ricevere una scossa elettrica per un comportamento disatteso (rinforzo negativo).
Possiamo dedurre che l’uomo, oggi, all’interno dei social media subisce l’influenza dei suoi comportamenti e tramite i like (rinforzi positivi) è portato a ripetere azioni che lo soddisfino? I social media rappresentano la nuova skinner box8? E se così fosse possiamo dargli l’appellativo, oggi, di emotional box?
Le emozioni come la rabbia, la paura, la tristezza spesso vengono definite come emozioni “cattive” solo perché la loro natura è associata a qualcosa di terribile e di pericoloso, viceversa le emozioni “buone” come l’allegria, la felicità e la sorpresa. Al giorno d’oggi sembra che l’intera costellazione emotiva si sia riversata all’interno dei social media esasperando o minimizzando gli effetti di quello che proviamo o peggio, rendendoci asettici. Se le nostre emozioni sono rimaste nel corso nella nostra evoluzione è perché hanno un valore altamente adattivo oltre che funzionale9. Talvolta la loro intensità è tale da sembrare che noi apparteniamo alle emozioni e non il contrario10. Così come quando ci fermiamo ad osservare il cielo e ci lasciamo trasportare da questo, ci sembrerà che noi stessi siamo nel cielo. Ma se osserviamo le nostre emozioni e cerchiamo di andare a fondo, di scavarle e conoscerle non saranno più loro a guidarci istintivamente ma avremo la consapevolezza di conoscerci con autenticità.
L’ansia da squillo non è figlia della nostra storia evolutiva e al momento non ci sono evidenze scientifiche sul suo valore adattivo e funzionale. Dunque quale sarà il ruolo della ringxiety nella vita dell’uomo? Nasceranno nuove emozioni all’interno dei nonluoghi digitali?
Lascio aperto questi interrogativo passandovi la parola!
Bibliografia
- Cfr, Tiffany Watt Smit, Atlante delle emozioni umane, Utet, 2015
- Cfr, Tiffany Watt Smit, Atlante delle emozioni umane, Utet, 2015, Pagina 22
- Chiara Del Giudice, Il fenomeno dei phantom phone signals, State of Mind, 2021
- Woods HC, Scott H, #Sleepyteens: Social media use in adolescence is associated with poor sleep quality, anxiety, depression and low self-esteem, J Adolesc, 2016,
- Marco Managò, Sindrome da vibrazione fantasma: allucinazioni dal telefonino, Interris, 2022
- Gazzaley, A., & Rosen, L. D., The distracted mind: Ancient brains in a high-tech world, MIT Press, 2016.
- Redazione, Dipendenza da smartphone e nomofobia: effetti e consigli per evitarle, Inside Marketing, 2018
- Normand, Matthew P. “Opening Skinner’s Box: an Introduction.” The Behavior analyst vol. 37,2 67-8. 2 Aug. 2014,
- Damasio A, Carvalho GB. The nature of feelings: evolutionary and neurobiological origins. Nat Rev Neurosci. 2013
- Cfr, Tiffany Watt Smit, Atlante delle emozioni umane, Utet, 2015, Pagina 17