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Didattica, la scuola nell’era digitale

 

La lettura del libro è come un’immersione subacquea in cui troviamo un ambiente tranquillo, visivamente limitato, con ritmi lenti, poche distrazioni, dove è necessario concentrarsi e riflettere sulle informazioni limitate che abbiamo a disposizione. Al contrario, Internet è come lo sci d’acqua; ci si muove in superficie ad alta velocità, esposti ad una ampia visuale e circondati da molte distrazioni.

Nicholas George Carr, scrittore statunitense.

Durante la lettura del libro “Internet ci rende stupidi?1 di Nicholas Carr mi sono soffermata sulla seguente riflessione. È vero che la lettura sviluppa meglio la concentrazione, la memoria, il ragionamento rispetto ai media visivi, ciò nonostante l’esposizione alle tecnologie digitali non dev’essere per forza un male.
I videogiochi, ad esempio, migliorano le abilità visuo-spaziali, aumentano i tempi di reazione e la capacità di intercettare i dettagli nel disordine. Non che io sia un’amante dei videogames, ma cerco di vedere il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto.

La tecnologia non è per forza dannosa e nociva, non rende i giovani più o meno capaci, più o meno intelligenti, più o meno perspicaci, li rende semplicemente diversi.

Le nuove tecnologie rendono qualsiasi informazione disponibile in qualsiasi momento. Imparare a cercare sta assumendo un’importanza sempre più rilevante che non ricordare.

I ragazzi forse saranno meno abili nel memorizzare le cose, ma saranno sicuramente più abili nel ricordare dove e come cercare i dati che gli servono. Nella società digitale le informazioni sono facilmente reperibili da praticamente tutti e in qualsiasi momento, risulta quindi molto più ragionevole ed efficiente imparare dove guardare e dove cercare. Il fatto di non dover memorizzare tutte le informazioni permette di impegnarsi in un processo di ordine superiore come il pensiero critico e il problem solving.

Bene, fino a qui tutto chiaro. La domanda che mi ronza in testa però è un’altra.
I due aggettivi con i quali i leader politici descrivono la scuola italiana sono inclusiva e innovativa. Ma è un’immagine reale?

I nativi digitali nella scuola di Gutenberg

Andando oltre alle differenze, se così si può chiamarle, dei bisogni educativi speciali e dei disturbi specifici di apprendimento e di tutti quei bambini che vivono in una situazione di svantaggio socio-economico, culturale e/o linguistico, c’è una cosa che accomuna tutti i ragazzi che frequentano la scuola oggi: tutti sono nativi digitali.2

Se da una parte l’inclusione scolastica prevede una didattica sempre più personalizzata e individualizzata, in quanto i bisogni sono molteplici e mai uguali, d’altra parte c’è il mondo digitale che li rende simili, che li unisce.

Oggi le telecomunicazioni e l’informatica sono i due pilastri su cui si regge la società nell’era dell’informazione. Ciò che ha sollecitato ed accelerato lo sviluppo di questa nuova fase è stata l’esplosione della rete Internet e del web. La società ha vissuto un cambiamento radicale sia in ambito sociale che quello economico. Le reti sono diventate dominanti in tutte le dimensioni della vita.3

Chi sono i nativi digitali? Sono quegli individui che sono nati e cresciuti a stretto contatto con la tecnologia, durante la diffusione delle tecnologie digitali.

Il potere degli individui e delle organizzazioni dipende dalla capacità di accesso alle informazioni, di generare nuova conoscenza e di comunicarla efficacemente tramite la rete globale. La staticità della stampa non è più in grado di soddisfare la necessità sociale di scambiare e condividere nuove informazioni e nuove tendenze. I vecchi media sono unidirezionali e lenti. Al contrario, le nuove tecnologie sono un flusso digitale continuo e bidirezionale di informazione, comunicazione, relazioni e anche emozioni.

L’offerta di contenuti in download su device quali e-book, tablet, smartphone, oppure contenuti direttamente utilizzabili in cloud, come i film o le serie TV che vengono distribuiti in streaming, è sempre più ampia e ce ne accorgiamo benissimo dopo una serata intera passata su Netflix a scegliere cosa guardare (a tal proposito Netflix ha introdotto una funzione chiamata ‘riproduci qualcosa’ per provare a risolvere questo enorme problema).

Tutto ciò non va inteso come un semplice aggiornamento informatico, ma comporta un vero cambiamento culturale che definisce un nuovo modo di abitare e comprendere il mondo. Questo, ovviamente, non può non attaccare anche il dominio del libro educativo e i manuali scolastici che continuano a risentirne molto. La competenza digitale da parte degli adulti, in questo caso dei docenti, è quindi necessaria per poter rispondere ai molteplici bisogni dei nativi digitali.

La generazione touch

L’idea dell’esistenza di una net-generation risale agli anni ‘90, ovvero al periodo del boom tecnologico, informatico e successivamente digitale.
Ciò che distingue la nuova generazione da quelle precedenti è la capacità di utilizzare le nuove tecnologie senza sforzo, senza pensare, intuitivamente. I ragazzi di oggi fin da piccolissimi passano le loro giornate interagendo con la tecnologia e, crescendo, il tempo aumenta progressivamente.

Molti di noi sorridono vedendo bambini piccolissimi interagire con libri o riviste come se fossero un tablet che non funziona. Durante una lezione in classe prima della scuola primaria mi è capitato di chiamare alla lavagna da gesso un bambino che ha cercato di attivarla facendo scorrere il dito. Tuttavia, questi comportamenti ci pongono una domanda fondamentale: che impatto ha l’uso di queste tecnologie sulla mente, sull’identità e sul modo in cui interagiscono e comunicano i nativi digitali e soprattutto come possiamo formarli?

Analizzando la storia dei media digitali è possibile, almeno per il momento, identificare quattro diverse fasi evolutive. Queste fasi sono caratterizzate dalle diverse interfacce utilizzate: testuale, web, web 2.0 e touch. A chiudere, per il momento, l’evoluzione dei nativi digitali è dunque la generazione touch. Grazie alla manipolazione diretta e all’uso intuitivo del device, gli appartenenti a questa generazione sono in grado di interagire con le tecnologie digitali fin da piccolissimi, prima ancora di iniziare a parlare e di imparare a leggere.

I nativi digitali utilizzano la tecnologia in modo naturale e senza alcuno sforzo, al contrario delle precedenti generazioni che fanno più fatica ad integrare l’utilizzo vivendolo come una difficoltà e una riduzione della propria espressione.

Se per le generazioni precedenti i nuovi media sono strumenti vuoti e inespressivi che limitano l’azione e richiedono uno sforzo significativo per essere utilizzati, per i nativi digitali sono invece delle opportunità che essi sono in grado di attuare in maniera totalmente trasparente e immediata. Sono quindi capaci di controllare sistemi dinamici complessi, ma senza essere in grado di spiegare le regole che gli permettono di farlo, per questo si dicono media intuitivi. Pensate all’acquisto di un nuovo smartphone. Chi di noi legge il libretto delle istruzioni? Le marche più note neanche lo propongono, sarebbe uno spreco di carta, inchiostro, spazio e design della confezione.

Quindi è vero che Internet ci rende più stupidi?

Al contrario di ciò che generalmente si pensa, usare i nuovi media senza pensare offre vantaggi significativi rispetto alle generazioni precedenti. Il nativo digitale non deve usare il ragionamento per interagire con la nuova tecnologia ed è libero di utilizzarla per identificare nuove opportunità. Quest’uso intuitivo dei dispositivi libera risorse cognitive che l’utente può usare in maniera più produttiva, sempre a seconda dell’età. Per fare un esempio, perché i ragazzi quando scattano un selfie usano filtri per cambiare le loro facce in personaggi buffi? Agli occhi dei genitori sembrerà solo un gioco e, spesso, una perdita di tempo, mentre per i ragazzi i filtri consentono di giocare con la propria identità digitale e di vedere le reazioni degli altri. Non capire questi comportamenti, non significa che sono necessariamente sbagliati, potrebbe essere che i nativi digitali vedano qualcosa che le generazioni precedenti non sono in grado di vedere.

Ma dopo i pro, arrivano anche i contro. I nuovi media modificano la capacità di riconoscere e sperimentare le emozioni in quanto quest’ultime risultano essere in qualche modo disincarnate, libere dalla natura corporea. Queste emozioni servono per evadere dal mondo reale e cambiare momentaneamente punto di vista, diventa però un problema quando le emozioni non hanno più alcun legame con la realtà, quando si riduce la capacità di riconoscere le emozioni proprie e altrui. Si parla, appunto, di analfabetismo emotivo, ovvero la mancanza di consapevolezza delle proprie emozioni e dei comportamenti ad esse associati, l’incapacità di relazionarsi con le emozioni altrui, non riconosciute e non capite. Da qui, nasce tutta una serie di conseguenze più o meno problematiche, difficili da trattare e, a volte, anche pericolose, come l’incapacità di sviluppare empatia, il bullismo, il cyberbullismo.

Nonostante la lunga lista di vantaggi esistono anche una serie di pericoli e svantaggi per questa generazione estremamente a contatto con la tecnologia. L’utilizzo continuo fin da tenera età espone a vari rischi legati alla gestione delle emozioni, al cyberbullismo e alla dipendenza.

Insomma, essere nativi digitali non vuol dire per forza possedere le competenze connesse al digitale. Proprio per questo motivo dovrebbero essere la scuola e la famiglia gli enti principali ad occuparsi del loro sviluppo.

Qual è allora la risposta alla domanda iniziale? Perché la scuola non è in grado di stare al passo con la società?

La scuola di ieri nella realtà di oggi

La verità è che stiamo usando vecchi metodi per una nuova generazione di ragazzi.

Leon C. Megginson, professore universitario e saggista statunitense, in “Lessons from Europe for American Business” (1963) scrive: “Secondo L’origine delle specie di Darwin, non è la più intelligente delle specie a sopravvivere; non è nemmeno la più forte; la specie che sopravvive è quella in grado di adattarsi meglio ai cambiamenti dell’ambiente in cui si trova”.4

La scuola deve costituire uno dei pilastri principali nella fase di costruzione del rispetto, dell’accoglienza e dell’accettazione delle diversità. Il ruolo della scuola non è più solo quello di insegnare, ma di sviluppare un pensiero etico, di educare, formare, di costruire un’identità diversa ma comune a tutti. Ai fini di una didattica inclusiva, che si presta a far raggiungere a tutti gli alunni il massimo grado di partecipazione sociale, motivazione ed autostima, è necessario cambiare metodi di insegnamento e di valutazione, cercando di non fossilizzarsi. La scuola potrà formare i nativi digitali solo cambiando i ritmi e le pratiche didattiche coerenti con i modelli della società digitale. Sicuramente una sfida non facile. La scuola, in tutta la sua interezza, deve stare al passo con i tempi e deve svilupparsi in sintonia con la realtà che la circonda.5

La responsabilità di preparare le nuove generazioni, l’individuazione di obiettivi e di metodi educativi e didattici adeguati, la necessità di stare al passo con i tempi…
Forse qualcosa si sta muovendo?

Bibiliografia

  1. Nicholas George Carr (2011). Internet ci rende stupidi?. Raffello Cortina Editore
  2. Giuseppe Riva (2019). Nativi digitali Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media. il Mulino.
  3. Manuel Castels (2004). L’età dell’informazione: economia, società, cultura, Università Bocconi Editore.
  4. Megginson, L. C. (1963). Lessons from Europe for American Business. The Southwestern Social Science Quarterly.
  5. Vittorio Midoro (2015). La scuola ai tempi del digitale. Istruzioni per costruire una scuola nuova. FrancoAngeli
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Autrice
Mateja Nanut nata e cresciuta a Gorizia, città di confine con una forte componente multiculturale e linguistica. La consapevolezza di poter influire in modo positivo sulla vita dei bambini e dei ragazzi, di poter trasmettere loro il piacere e la curiosità nell’imparare cose nuove, l’ha portata ad intraprendere gli studi pedagogici ed educativi. Laureata nel corso di Laurea Magistrale in Scienze della Formazione Primaria nel 2017, ha ampliato ulteriormente la sua formazione con un Master Universitario di primo livello in BES Bisogni Educativi Speciali e un Corso di Perfezionamento nella Metodologia CLIL. Specializzata a pieni voti con lode in Scienze Pedagogiche nel 2020, ha seguito e concluso il corso formativo sulla valutazione della Sindrome di Irlen nel 2022, diventando Irlen Screener certificata. Insegnante di scuola primaria e pedagogista presso lo studio pedagogico Il Ciliegio in cui, oltre alla consulenza familiare, offre percorsi didatticopedagogici personalizzati rivolti a bambini e ragazzi di tutte le età e di qualsiasi ordine e grado scolastico. Istruttrice di sci alpino, amante della montagna e una vera appassionata degli sport outdoor.